Coraggio, il meglio è passato. C’è il gusto del paradosso tanto caro a Ennio Flaiano ne “Il ritorno del Guerin Meschino. Appunti per comprendere il nuovo medioevo” (Lindau, pp. 115, € 13), il libro che Luca Negri, firma del Giornale e del Foglio, ha appena mandato in libreria. L’autore, però, non si ferma sulla soglia di un aforisma ma articola un colto e godibilissimo divertissement storico-letterario sul Medioevo immortale (in primo luogo il vecchio, ma anche quello che bussa alla porta). E lo fa tirando fuori dal dimenticatoio un personaggio dal passato glorioso, facendone un ghiotto spunto di riflessione sull’inesauribile bisogno di sorprese e mistero che attraversa i nostri grigi giorni.
La nostra civiltà sta avanzando verso un nuovo medioevo? Meno male, osserva Negri, demolendo uno a uno i tanti pregiudizi, in larga parte anticattolici, che liquidano tout court quell’epoca come buia. Il libro, tuttavia, lo diciamo a scanso di equivoci, non è confezionato per compiacere ultras dell’antimodernismo e reazionari in servizio permanente effettivo. Non ci si può dire anti-illuministi, puntualizza lo stesso Negri. Post-illuministi, semmai. “Dopo questa overdose di materia, serve lo spirito”. La premessa è indiscutibile: non tutto può essere spiegato razionalmente. Archiviata definitivamente la concezione lineare della storia, preso atto delle innumerevoli questioni irrisolte lasciate dall’ideologia progressista e della sostanziale resa dei lumi, non rimane che affidarsi al Guerin Meschino. Proprio lui, l’imperitura icona pop, bestseller ante litteram la cui popolarità finì per sbaragliare persino quella della Commedia dantesca. Un vero cult del medioevo. Quando il toscano Andrea da Barberino, trovatore dei Fedeli d’Amore, agli inizi del XV secolo, ne romanzò la leggenda, nelle piazze d’Europa i trovatori ne cantavano le gesta da decenni, forse da secoli. In anni più recenti, si fa per dire, divenne protagonista del grande schermo e dei fumetti. La più “antica” e gloriosa rivista calcistica, il Guerin Sportivo, deve a lui il nome della testata. Julius Evola, da parte sua, arrivò a definirlo “simbolo dell’anima medioevale nel suo sforzo di conoscere sé stessa”. I più giovani si staranno interrogando: chi sarà mai costui? Chi è quest’illustre riservista che Negri arruola per affrontare (addirittura!) il nuovo medioevo? Il curriculum è un concentrato di avventure, degno dei più fantasiosi sceneggiatori. Figlio di Milone, re di Durazzo, il piccolo Guerin viene rapito e venduto dai pirati all’imperatore di Costantinopoli ritrovandosi “meschino”, senza nome, un poverino alle prese con un destino avverso, un trovatello che, in quanto tale, non può sposare la blasonata amata. Per farla breve – ma Negri non lesina avvincenti particolari – si fa peregrino: dalla Persia all’India, dalla Terrasanta all’Armenia, da Roma all’Irlanda sino all’agognato ritorno in patria. Una lunga estenuante ricerca della propria identità tesa alla riaffermazione del suo ruolo. Cerca, per dirla ancora con Evola, “le file perdute della sua più alta tradizione”. Attuale, non trovate?
“Non ci sentiamo – si/ci domanda Negri – anche noi un po’ rapiti, spossessati dal trono della creazione, meschini e senza identità? Non avvertiamo il bisogno di ritrovare i genitori e le radici?” Il Guerin Meschino, pertanto, altro non è che un’immagine poetica per condividere uno stimolo all’esercizio del pensiero. Come e con il Guerin, Luca ci propone un viaggio a cavallo tra storia, letteratura e religione in cui ci si confronta con il pensiero di filosofi e scrittori che hanno letto l’età moderna con uno spirito fortemente critico e in qualche misura decisamente sovversivo rispetto all’opinione dominante. Personaggi che, a vario titolo, hanno qualcosa da insegnarci sul medioevo. Da esperti di “decadenze” come Oswald Spengler a uomini che, come Ernst Jünger, hanno assistito prima al trionfo della mentalità positivista e poi al seguente smarrimento postmoderno.
Il tempo di voltare pagina e siamo in viaggio: iniziamo con un salto nella Santa Russia per ascoltare due pensatori, Florenskij e Berdjaev, e poi ci ritroviamo in terra di Celti, per incontrare uno scrittore francese di sangue normanno, Pierre Drieu La Rochelle, affascinato da quel cristianesimo robusto del medioevo che scorgeva, ad esempio, nel cattolico e monarchico Georges Bernanos. Facendosi collaborazionista della Germania nazista, Drieu auspica sopra ogni altra cosa il ritorno a una civiltà organica: una specie di nuovo medioevo. Nell’estate del 1940 firma un breve saggio, “Appunti per comprendere il secolo”, in cui mette in discussione il “mito zoppo” del progresso e il “rigido orgoglio” che lo regge in piedi. Elogia l’antichità greca in cui il corpo e l’anima erano uniti e punta il dito contro l’intellettualismo che ha trasformato il corpo in prigione dell’anima e non più sua espressione gioiosa. Proprio nel medioevo, invece, aveva scorto segnali di riscossa: “Il Medioevo, magnifica epopea di giovinezza, tratta il corpo come la prima antichità”. Ben prima che, con l’avvento degli Stati nazionali e più avanti della borghesia, si evidenziassero le disuguaglianze sociali, le condizioni di vita erano difficili per tutti e anche i signori pativano una disgraziata stagione di carestia, prendevano la peste, morivano in battaglia insieme ai contadini. L’unico antidoto è nella forza, quella stessa forza che trova superba rappresentazione nei monumenti dell’epoca, dove – scrive Drieu – “scopriamo una stupenda espressione di forza e di allegria nei corpi”. Chi costruiva quei castelli e quelle cattedrali, ne deduce, non poteva essere “gente debole e triste”. Alla faccia dell’oscurantismo! “Tutta quell’umanità cantava, grondava di canti e musiche. E il tempo era ritmato da grandi feste collettive”.
Negri cita a testimoniare anche Piero Buscaroli: “Quando la plebe scrivente e ciarlante bercia di tenebre del medioevo, io rido. Avessimo, noi, un barlume delle luci che allora si accendevano”. Eppure ancora oggi, quando si vuole marchiare d’infamia ogni sospetto di reazione o condannare un crimine a qualsiasi latitudine avvenga, si ricorre all’espressione “roba da medioevo”. Non si va per il sottile: una lapidazione islamica può diventare così una roba da medioevo, ovvero del periodo storico più cattolico che sia mai esistito. “Eppure nell’Europa dell’Età di mezzo non si lapidavano le donne”, nota Negri. C’erano sì i roghi, l’Inquisizione (che diede il suo meglio/peggio molto più avanti), gli strumenti di tortura, ma il male c’è sempre stato, ha attraversato e attraversa la storia dell’umanità. Malgrado ciò, però, non si parla di “stile XX secolo” quando si parla di lager, gulag e bombardamenti atomici. Il tanto vituperato sacro romano impero non era un mostro totalitario ma garantiva notevoli libertà civili e federali. I servi della gleba – nome decisamente infelice quanto fuorviante, riconosce l’autore – non erano schiavi in senso stretto ma lavoratori che spesso potevano gestire i tempi del mestiere con più autonomia di un odierno impiegato. Con prospettive più certe, aggiungiamo noi, a quelle dei precari dell’età moderna. E le donne – ah, l’annosa questione femminile – godevano di maggiore considerazione di quanto si vorrebbe far credere. C’è bisogno del Guerin Meschino, pertanto, per rimettere i puntini sulle i e restituire al medioevo quel che è del medioevo. Un recupero necessario, portato avanti sinora da pochi e valenti studiosi. Uno dei contributi più fecondi al recupero del Medioevo – ricorda ancora Negri – lo diede senza dubbio Tolkien, che creò con la sua opera un medioevo preistorico con elfi, nani, maghi e orchi. Aragorn, il cavaliere ramingo che intraprende il viaggio con la Compagnia per tornare degno di regnare sul suo popolo, l’uomo che si deve fare Re, a ben vedere, altri non è che un alter ego del nostro Guerin Meschino. Così come un’altra fiaba tanto significativa quanto longeva, imparentata strettamente con la storia del Guerin Meschino, è quella del Graal, un mito rilanciato in tempi recenti dal successo mondiale de “Il codice Da Vinci”.
In conclusione, per trovare una via d’uscita dalle derive materialiste ed egalitarie della società (post) moderna e per favorire la rinascita di una nuova consapevolezza cristiana, c’è bisogno di più… medioevo. Una scommessa che Luca lancia ai suoi “quindici lettori”. A suo merito va detto che, quando alcuni di noi ancora si ostinavano a dar credito alla leadership “illuminata” di Gianfranco Fini, lui aveva già chiuso il discorso pubblicando “Doppifini. L’uomo che ha detto tutto e il contrario di tutto” (Vallecchi, 2010). Punto e a capo. Anzi: amen.