Guerra. La parola echeggia come il tuono di un cannone, trascina il corpo, lo fa apparire nella sua fisicità, forza, fragilità, caducità, mette la Grande Mietitrice, la morte, sul palcoscenico della nostra esistenza con il nome e il ruolo che il destino di volta in volta le assegna. La guerra non è un evento episodico del nostro racconto collettivo, è una persistente presenza, è un intermittente bagliore nel buio, un fatto indelebile della cronaca che si fa storia. Eliminare la parola guerra dal lessico contemporaneo è impossibile, mascherarla un errore, non affrontarla un peccato mortale.
Viviamo un tempo di guerra. La strage di Bruxelles non è un frammento, una scheggia impazzita di un romanzo dove regna la pace. Bruxelles è soltanto l’aggiornamento di un programma di sterminio. E’ Space Invaders che schermata dopo schermata propone al giocatore sempre la stessa minaccia: gli alieni vogliono ucciderti. Chiamare le cose con il proprio nome è il più grande atto di coraggio che la contemporaneità chiede a chi oggi ha responsabilità di governo. Quindici anni fa, l’11 settembre 2001, la storia presentava uno dei suoi turning point, un cambio di direzione, un trauma. Improvvisamente, tutti i fili sciolti della minaccia si riannodavano e il crollo delle Twin Towers rivelava la potenza distruttrice di un nuovo nemico. Sapevamo tutti che quella era una frattura del contemporaneo, ma abbiamo continuato a coltivare l’illusione dell’assenza della guerra, abbiamo inseguito il mito impossibile della pace senza conflitto. (da mariosechi.it)