Non frequentare le nuove poliambulatoriali sale, limitandosi a dare consigli inconsueti che suscitano ilarità nei devoti al calcio-pugno-schiaffo o all’effetto speciale, può apparire un atteggiamento snobistico, da cineforum; c’è anzitutto questo problema del bracciolo conteso tra le due poltrone, oltre a tutta una serie di idiosincrasie più o meno assurde, riguardanti principalmente le multisala, che andrebbero confessate orgogliosamente, anche per alimentare disappunto da parte degli accodati: la gente! Troppa anche quando la sala è deserta. Assai prossima, borbottante, sgranocchiante, soprattutto per chi considera la visione di un film al pari della lettura di un libro, ovvero una faccenda strettamente privata. La fila per il biglietto, l’odore di popcorn all’ingresso, i neon abbaglianti nei corridoi, i commenti prima durante dopo, l’alienante paesaggio urbano attiguo che deprime ogni decantazione post-visione. Dacché i cinematografi hanno abbandonato i centri storici delle città, in favore di locazioni periferiche, s’è costituita la nefasta triade Multisala – Centro Commerciale (con enclave per il bricolage) – Fast-food, dove la luce fredda dei lampioni batte forte sulla bruttezza del circondario – e meno male che è sempre notte da quelle parti – tra cemento, rifiuti e camion parcheggiati alla cazzo. Perché pagare per soffrire, quindi? Un po’ come andare in palestra, dove l’obolo si sperpera in speranzoso sforzo, in tonico miraggio come alternativa alla vanga. Tanto più che detestare i polpettoni americani, trovando di conseguenza l’esperienza cinematografica tristemente paragonabile solo ad un tour per piscine collettive o al deambulare in parchi giochi per famiglie, pone lo spettatore alternativo in meritato castigo. Un ripostiglio in streaming dunque, un diniego anticonformista da risolvere in dieci mosse, tutte rigorosamente anti-hollywoodiane. Facciamo nicchia, dunque, con una selezione di dieci pellicole, alla quale seguirà una seconda puntata.
- Filth (2013), regia di Jon S. Baird
Film scozzese fino al midollo, fortunatamente non doppiato, tratta le vicende borderline di uno schizofrenico sergente di polizia, superbamente interpretato da James McAvoy. Sconcio, violento, come ironico e brillante, il lungometraggio riesce nell’impresa di portare alle estreme conseguenze il proverbiale cinismo anglosassone. La corruzione morale del protagonista, gettata in un vortice dopato di perversione, non perde mai di leggerezza, portando al limite estremo lo stereotipo dei buoni e dei cattivi. Anzi, ribaltandone con gran gusto la staticità dei ruoli. Comico e dissacrante, soprattutto nelle rare parodie melodrammatiche, il film si fa apprezzare anche per i siparietti fetish di Pollyanna McIntosh.
Dal nome della giovane protagonista, è il durissimo racconto di una fuga raramente narrata al cinema. Cinque fanciulli tedeschi, con la più grande nemmeno adolescente ed il più piccolo ancora in fasce, abbandonati dai genitori nei giorni della disfatta nazionalsocialista. La prole si avventura in un pericoloso viaggio, tra sbandati e violenti invasori – altresì detti liberatori – nel mezzo di un collasso generale, alla ricerca della casa dei nonni. Film intenso e spietato, meravigliosamente arricchito da una fotografia raffinata, vagamente riconducibile a Tarkovskij. Tra la cruda realtà post-bellica della Germania “anno zero”, riesce ad uscire incredibilmente la bellezza della natura, confermata dalla tenacia dei piccoli fuggiaschi.
- Storie pazzesche (2014), regia di Damián Szifrón
Si tratta di sei cortometraggi argentini, coerentemente riuniti in un unico folle disegno filmico. Vite comuni, fatti apparentemente banali, intoppi burocratici, si tramutano nella narrazione in assurde sentenze tragicomiche. Un volo d’aereo poco rassicurante, la vendetta imprevedibile di una vittima dell’usura, una lite tra automobilisti per un sorpasso, la rimozione forzata per un parcheggio vietato, il mancato soccorso di una donna incinta travolta sulle strisce pedonali, la movimentata festa di nozze di due sposini, sono tutti pretesti per sottolineare l’irreversibile deterioramento delle convenzioni civili. Tutto va a scatafascio, nei sei episodi, destando nello spettatore una attonita incredulità.
- Victoria (2015), regia di Sebastian Schipper
Nel clima underground delle notti berlinesi, una giovane ragazza spagnola incontra un gruppetto di scapestrati locali. Segue amicizia ed infatuazione per uno dei bulli, alla scoperta di club techno, di negozi turchi nei quali rubare birra e di terrazze dalle quali ammirare ubriachi la città, poco prima dell’alba. Nella seconda parte, però, il film prende una piega decisamente drammatica, per la decisione (obbligata) del gruppo – ragazza compresa – di avventurarsi in una tragica rapina in banca. La fotografia iperrealista ed il ritmo urgente da “presa diretta”, conferiscono soprattutto all’epilogo tutta l’ansiosa tensione e la credibilità di un thriller metropolitano moderno.
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- Vodka lemon (2003), regia di Hiner Saleem
Dal filone “ostalghia”, ovvero nostalgia dell’est intesa come atmosfera sovietica da rimpiangere, rispolveriamo questo film armeno, principalmente per il fascino desolato dei paesaggi caucasici e per l’indolenza fatalista dei suoi abitanti. A differenza del più noto ed urbano Goodbye Lenin, qui vengono narrate le minute vicende di un’umanità marginale, abbandonata alla periferia di un impero sfaldato, al crocevia tra due mondi. Neve, musiche desuete, capre e pullman scalcinati ed ovviamente vodka, la povertà è qui descritta con poesia, seguendo il codice espressivo già imbastito dal maestro assoluto del genere, ovvero il finnico Aki Kaurismaki.
- Il vento fa il suo giro (2005), regia di Giorgio Diritti
Più che un film italiano, quello di Diritti è un film ultra-locale, che riesce a cogliere perfettamente il regolamento non scritto delle comunità montane. Protagonista è Philippe, un pastore francese transfuga dai Pirenei con famiglia. Egli trova congeniale stabilirsi in un piccolo paese della Val Maira, abitato solo da pochi anziani di ceppo occitano. Qui, aiutato inizialmente dagli amministratori comunali, fidenti nella promozione turistica, lo straniero insedia la sua attività di micro-produzione di formaggi. La popolazione locale, chiusa a riccio ed ipocrita, concede dopo la diffidenza iniziale, qualche aiuto al forestiero, salvo poi optare per una compatta ostilità una volta accertata l’indole anarchica dell’ospite. Perfetta parabola della falsa accoglienza, costruita all’interno di un microcosmo ancestrale.
- Uomini di Dio (2010), regia di Xavier Beauvois
Basato su un fatto realmente accaduto nel 1996, ovvero l’assassinio di sette monaci cistercensi francesi ad opera di terroristi islamici algerini, il film si caratterizza per un codice espressivo sobrio, quasi dimesso. In effetti, nonostante la convivenza dei cristiani in terra islamica sia pacifica e consolidata dallo spirito di servizio, caratteristico della compagine monacale, il racconto sembra sospeso in un lungo prologo, nell’attesa inevitabile della morte. La piccola comunità cistercense, minacciata dal crescente fondamentalismo, viene consigliata alla prudenza, prima con la protezione dell’esercito, poi con l’invito al rimpatrio. Nonostante ciò i monaci optano coraggiosamente per la permanenza, dimostrando tutto il significato della parola Fede.
- Faust (2011), regia di Aleksandr Sokurov
Qualche gretto ha scritto di sbadigli – per altro assai probabili in stolta epoca – altri hanno attivato il generatore automatico di lodi. Ebbene, il Faust del cineasta russo può a ragione essere definito capolavoro. C’è il respiro letterario e visionario, nella trasfigurazione del capolavoro di Goethe, c’è quella cura estetica maniacale, caratteristica del grande cinema che fu sovietico (ancora Tarkovskij), qui declinato nell’ultimo atto della Tetralogia del potere, come fosse un dipinto fiammingo. Epico nel tratteggio della dicotomia Bene/Male, tragico come un Béla Tarr e sottilmente folle, come un’allegoria à la Carmelo Bene, il lungometraggio premiato a Venezia con il Leone d’oro finirà nell’ordine dei classici. Encomio per Anton Adasinsky nei panni di Mefistofele: assai consono.
Si dirà: Onirico. Certo, pure fantastico, barocco, lussurioso e simbolista. Il film di Garrone pare intrecciare matrice gotica e grottesche superstizioni con l’alterazione della verosimiglianza, caratteristica di Alice nel paese delle meraviglie. Una favola, indubbiamente, suddivisa in tre episodi esteticamente omogenei, anzi convergenti in una narrazione stratifica e dai rimandi intrecciati, come fu per Tre colori di Krzysztof Kieślowski, con le ovvie divergenze d’immaginario. Già troppo noto al grande pubblico, viene inserito in questa lista per l’ispirazione atemporale e per le virtù suggestionanti.
- What we do in the shadows (2014), regia di Taika Waititi e Jemaine Clement
Delirante pastiche neozelandese, incentrato sull’apprendistato di Nick, un novizio adescato da una confraternita di vampiri. Film girato con due soldi, in stile falso documentario, riesce a divertire con la pacchianeria tipica dell’horror che si fa autoparodia di genere. Tra i problemi di autogestione della casa (il turno per lavare i piatti, tra vampiri, pare scoglio insormontabile, ai fini del quieto vivere) e performance destabilizzanti nel mondo dei “normali umani”, appare come vero protagonista il tonto Stu, adottato dal clan per pura simpatia. Risparmiato dal sacrificio del sangue, Stu s’aggirerà per l’intero film come uno spaesato sotto psicofarmaci. S’aggregheranno al bestiario lupi mannari, streghe e zombie, come ben reso dalla festa per mostri, organizzata nel più classico dei contesti trash-goth.
@barbadilloit