I cadaveri sono tutt’attorno. Ossa e scheletri scarnificati con ancora indosso le divise dello stato Islamico sparpagliati lungo le difese dell’aeroporto militare di Kuweyres, 26 chilometri a est di Aleppo. Attorno a questa base rimasta chiusa dietro le line del Califfato per quasi tre anni si è combattuta una delle più lunghe e accanite battaglie del conflitto siriano .
Qui 1200 uomini dell’aviazione di Damasco hanno difeso per 1215 giorni il perimetro di tre chilometri per quattro di quest’aeroporto militare situato lungo l’autostrada per Raqqa e circondato dai militanti dello Stato Islamico fin dal 2013.
“Eravamo circondati, ma non abbiamo mai pensato di mollare neppure quando tutto sembrava perduto” – ricorda il 62enne generale Munzer Zamani che in questo periodo non ha mai abbandonato il comando dei suoi uomini. Per farci capire che genere di battaglia si sia combattuto intorno alle piste della sua base il generale ci accompagna di persona fino ai lati del campo. Lì oltre le piste di decollo e atterraggio si dipanava fino a poche settimane fa la prima linea della base. E appena 150 metri più oltre s’aprivano le postazioni del Califfato. “Non sapevamo né quanti fossero, né da dove arrivassero. Era come combattere con un esercito di topi emerso all’improvviso dalle viscere della terra” – confessa il generale Munzer mostrando l’ingresso di una galleria scavata proprio sotto le trincee in cui si muovevano gli uomini del Califfato.
Lì oltre e sotto quella tetra voragine s’apre un altro mondo, un’oscura gruviera disegnata nelle viscere della terra. “Non immaginavamo fossero in grado di scavare dei tunnel così lunghi, profondi e ben strutturati” – racconta il maggiore Yad, uno dei pochi ufficiali della base ad averle esplorate quasi tutte. “Ora siamo a tre metri sotto terra e scenderemo anche fino a cinque spiega il maggiore mentre avanziamo a testa china in uno stretto cunicolo. Poi oltre una curva la galleria si allarga e ai suoi lati si aprono una serie di cavità sotterranee larghe quanto una stanza.
“Vedi, qui dormivano, mangiavano e si riposavano. Avevano creato un mondo parallelo sotto i nostri piedi senza che noi manco ce ne accorgessimo. Grazie a queste gallerie le bombe dei nostri aerei erano praticamente inutili, appena li sentivano arrivare si buttavano nei tunnel. Quando ancora non conoscevamo tutte le loro trappole sono riusciti a sbucare fin dentro la zona delle nostre caserme e prenderci di sorpresa. Da quel momento abbiamo dato il via ad una vera e propria guerra dei tunnel. Loro scavavano e noi seguivamo il rumore dei loro macchinari cercando d’identificare i fori d’areazione. Quando li trovavamo e li bloccavamo non serviva neanche ucciderli perchè appena capivano di essere in trappola si facevano saltare da soli”.
La battaglia più dura era però quella combattuta faccia a faccia su una terra di nessuno larga non più di 150 metri. “Loro avevano dei tiratori infallibili quasi tutti ceceni che non sbagliavano un colpo. A causa loro – ammette il generale – ho perso tantissimi soldati. Dei 600 caduti di questa base almeno una cinquantina sono stati colpiti dal fuoco di quei cecchini infallibili”. Ma i ceceni erano solo uno dei tanti gruppi stranieri impegnati a stringere d’assedio l’aeroporto. “Qui erano venuti da tutto il mondo per farci la festa – scherza il maggiore – i sauditi erano la maggioranza, ma dietro a loro credetemi c’era di tutto dai militanti del Mali a quelli della Tunisia, dai cinesi agli afghani. Quando raccoglievamo i cadaveri e controllavamo i documenti trovavamo di tutto meno che i siriani. A conti fatti la percentuale degli stranieri superava il 70 per cento. E il problema maggiore in battaglia era l’indifferenza di fronte alla morte di tutta quella gente. Quando attaccavano erano tutti sotto l’effetto di droghe e quindi andavano avanti fino a quando non trovavano un proiettile o una bomba che li fermava. L’arma più temuta dai difensori di Kuweyres erano le micidiali autobombe blindate con cui lo Stato Islamico cercava di sfondare le difese del lato occidentale della base.
“Non avevamo mai visto prima una cosa del genere. Utilizzavano dei blindati riempiti di tonnellate di tritolo che abbbatevano interi edifici racconbta il maggiore Yad mentre ti accompagna tra i ruderi di un palazzo di cemento colpito da uno di queste ordigni devastanti. Le armi anticarro non bastavano a fermarli e così anche i nostri soldati hanno imparato a sacrificarsi. I nostri volontari hanno fermato 15 di quei mostri buttandosi sopra quei mostri e facendoli esplodere prima che riuscissero a colpire il perimetro della nostra base. Se siamo riusciti a sopravvvivere lo dobbiamo al sacrificio di quei nostri martiri”. (Il Giornale)