Ci ho provato anche io. Nessun feticismo della sconfitta, nessun gusto decadente per l’emarginazione, nessuna vocazione alla profezia inascoltata. Ci ho provato anche io a vedere il futuro dell’umanità con le lenti del progresso: preventiva assicurazione che ciò che succederà domani sarà meglio di oggi. Ho pensato anche io che in fin dei conti le cose cambiano, come sono sempre cambiate e se tiri le somme nell’800 andava peggio che nel ‘900, la speranza di vita, il tenore di vita, le conquiste democratiche. Ho pensato che era tanto meglio evitare di mettersi troppo contro al corso della storia, che si possono creare degli spazi protetti in cui quello che non ci piace non si vede, e che accettare che le cose vadano come devono andare fosse il miglior modo per evitare di guardarle in faccia. Perché costruirsi un’identità da gufi del progresso, guastafeste e reazionari, bigotti? Meglio accettare qualcosina che non ci piace e stare bene dove si sta. Ma non ce l’ho fatta. La rassicurazione preventiva che il domani sarà meglio dell’oggi non funziona con me. Quella visione del mondo per cui il “tempo” ha la sua astuzia che sistema le cose si è incrinata sempre di più nella mia coscienza.
Che colpa ne ho se vedo dietro ogni angolo la catastrofe? Non riesco a vedere – in fin dei conti, tutto sommato, alla fine del tunnel – l’happy end della storia. Mi tornano in mente le parole di Cioran, Nietzche, Pasolini, la sua profezia e poi Matteo 24, 24:
“Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli”.
Mi tornano in mente soprattutto gli occhi di Pasolini, il suo sguardo sul mondo moderno, lucido, uno sguardo che viene dopo il terrore, non più disperato; oltre il tragico. Ogni volta che provo a dire: “vabbè, ma in fin dei conti perché devo vedere in ogni passo il precipizio” vedo lo sguardo di Pasolini e vedo l’Italia del nuovo millennio; vedo il volto del progresso, vedo i nuovi idoli, i profeti del domani, i falsi cristi, i portenti e i miracoli della tecnica. I miracoli che vengono d’oltreoceano, non più madri che partoriranno nel dolore, ma surrogati tecnici, disposizione dell’ente alla fattibilità – macchinazione – nuovi padri prodigiosi. In realtà ci sono ancora le madri che partoriscono nel dolore, la tecnica non è ancora a disposizione del proletariato: si presta piuttosto al suo sfruttamento. Diviene anzi macchina esso stesso – il proletario – una parte del processo produttivo: dove non arriva l’acciaio serve ancora la vita, fatta di uteri, fianchi, vagine, liquidi, sangue. E alla fine del gioco la costante è che il differenziale di reddito e di status sociale determina chi è macchina e chi fruitore, chi soggetto e chi oggetto. Però i portenti e i miracoli arrivano da oltreoceano, parte una coppia di uomini e senza nemmeno un piccolo rigonfiamento del ventre (nemmeno come quello di Socrate, gravido di pensiero) tornano con un figlio: “faranno grandi portenti e miracoli”. Insomma non ci riesco ad essere ottimista come i miei amici, non riesco a guardare in faccia “questi nostri dannati tempi” (come ebbe modo a scrivermi Manlio Sgalambro, un altro uomo di cui rimpiangiamo lo sguardo) senza pensare a Pasolini, a Walter Benjamin:
“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”