«Il caso Spotlight», che ha appena vinto il premio Oscar, è un bel film». Un bel film di fantascienza, almeno per noi italiani. Non solo perché noi un giornalismo d’inchiesta come quello descritto nella pellicola di Tom McCarthy non ce l’abbiamo mai avuto, ma soprattutto perché mai ce l’avremo. Per cui le imprese dei reporter d’assalto del Boston Globe interpretati da Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams e Brian d’Arcy James per lo spettatore italiano sono alla stregua di quelle di Robocop, E.T., Darth Vader, dei dinosauri di Jurassic Park o dello Jedi. Fantasia e pura evasione.
Neppure negli anni d’oro del giornalismo italiano c’è mai stato il caso di una vera redazione distaccata esclusivamente a realizzare inchieste, senza limiti di tempo e di denaro, così libera da risponderne solo al direttore e in certi casi neppure a lui, almeno per la rivelazione di certe notizie. Al massimo ci sono stati grandi segugi a livello individuale, che rubavano il tempo alle normali attività lavorative per approfondire i casi più interessanti, che poi magari faticavano persino a far pubblicare.
La nuova frontiera del giornalismo
Una cosa è certa: casi simili in Italia non ci sono mai stati e mai ve ne saranno,
perché la nuova frontiera del giornalismo da una decina d’anni a questa parte, fra crisi economica e rivoluzione digitale, è quella del «tutto, subito e possibilmente senza spendere un euro». Inchieste come quella di Boston (per chi non lo sapesse nel 2001 il quotidiano Usa fece scoppiare il caso di decine e decine di preti pedofili coperti dalla diocesi) non piacciono agli editori, che le giudicano troppo costose e rischiose; non entusiasmano i direttori, troppo intenti a promuovere se stessi presso politici e potentati economici; non scaldano il cuore dei giornalisti, affezionati al quieto vivere; e in definitiva non interessano più di tanto neppure ai lettori, cloroformizzati dalla tivù e saziati dall’informazione in pillole, e gratuita, di internet.
In Italia inchieste come quella del Boston Globe sono (e saranno) impossibili anche perché la nostra tendenza – nei giornali come nelle televisioni o nei siti internet – è quella di spremere i pochi contrattualizzati per il cosiddetto lavoro di desk, cioè la parte redazionale e passacartista della professione, e per il resto far trottare legioni di giovani semi-precari, con contrattini di collaborazione o pagati ad articolo. Anzi, sottopagati ad articolo. Gente che se anche avesse capacità e desiderio di indagare su notizie scomode, non potrebbe farlo perché si sbatte dalla sera alla mattina per coprire i servizi più vari e mettere insieme il pranzo con la cena.
Un’inchiesta novecentesca
Ma oltre che uno splendido film fantascientifico, «Il caso Spotlight» è anche un ottimo esempio di film storico, che racconta un giornalismo a stelle e strisce che non esiste più: sono passati quindici anni dalla vera inchiesta dei cronisti del Boston Globe, ma è come se fosse trascorso un secolo. La loro indagine sui preti pedofili, come ben emerge dalla pellicola premiata, era infatti un lavoro squisitamente «analogico», cioè vecchio stampo, basato su deposizioni, esplorazioni negli archivi polverosi, studio e confronto delle carte, suole consumate alla ricerca di testimoni, collegamenti logici e intuizioni geniali. Attività molto novecentesche, nulla di più lontano dal giornalismo «digitale» – immediato, virale, social e superficiale – dei giorni nostri. Per cui tutti noi che abbiamo in tasca una tessera da giornalista prendiamo l’Oscar a «Il caso Spotlight» per quel che è: un premio alla memoria.