
Sabato 12 marzo prossimo, a Dio piacendo, andrò a messa alle 18 a Firenze, nella “mia” Santa Maria Novella, nella biblioteca del convento adiacente alla quale, presso i cari Padri Domenicani, ho depositato a titolo di lascito una parte cospicua dei miei libri. Ho chiesto che vi sia celebrata una messa in suffragio a Umberto Eco. Chi può, ci venga.
Poco per volta, in punta di piedi, la generazione degli Anni Trenta ci sta lasciando. Non facciamone una tragedia: in fondo, è nell’ordine delle cose. Per me e per tutti quelli della successiva, la generazione degli Anni Quaranta, è un segnale da accogliersi con serenità: un po’ mesta, magari. Uno per uno – parlo della categoria dei miei colleghi, ch’erano tutti anche amici – se ne sono andati l’uno dietro gli altri, fra i più famosi, Jacques Le Goff, Sergio Bertelli, Girolamo Arnaldi. Ora è la volta di Umberto Eco, migratus ad Superos – per dirla con i versi del nostro caro Gaudeamus igitur, l’inno della Grande Goliardia alla quale non ha mai cessato di appartenere – nella tarda serata del 19 febbraio scorso. Or ora.
Lo so: le leggi di natura. E la vita che si è allungata. Fino ad alcuni anni fa, gli ottant’anni erano un limite valicare il quale era relativamente inconsueto; oggi la “speranza di vita” naviga verso i novanta. Ci sarebbe da rallegrarsi. Eppure io non so, non posso, non riesco ad abituarmi all’idea che non ci sia più. Non troppi mesi or sono era venuto appunto a mancare a Parigi – come dicevo poco fa – un suo grande amico, il medievista Jacques Le Goff. “E’ davvero finita un’epoca”, ebbe a dire lui al riguardo. La sua stessa morte ce l’ha confermato. Per me che sono più o meno un decennio più vecchio di lui, che sono cresciuto intellettualmente a colpi di Diario minimo e di Elogio di Franti, il fatto che lui ci abbia lasciato è la riprova che si è ormai chiuso il Grande Novecento. Quel tempo ch’è stato anche mio: il tempo di Sartre, di Caillois, di Derrida, di Salvador Dalì, di Woody Allen. Il secolo splendido e terribile che ha saputo mettere accanto – anche se magari non insieme – Stalin e Teresa di Calcutta, Hitler e Schweitzer, Khomeini e David Bowie.
Umberto Eco fu una rivelazione per noialtri ch’eravamo poco più che ventenni mezzo secolo fa, quando lui era poco più che trentenne e impazzava – ancora senza barba e con molti chilogrammi di meno – dalle colonne de “L’Espresso”. Una pattuglia di giovani che stavano in equilibrio parcheggiati tra università e RAI (lui stesso, Eugenio Battisti, Furio Colombo e pochi altri) riuscì a scombinare le carte di un gioco politico e culturale stantìo, si aprì e ci aprì a un’Europa intellettuale impensabile e per molti versi scandalosa, ci mostrò verso quali funambolici orizzonti potevano giungere la semiologia collegata con l’estetica e con la politica.
Poi, sulla soglia del suo mezzo secolo d’età, quel divo dell’Accademia, della carta stampata e del piccolo schermo ci sorprese e ci sedusse con un “giallo medievistico” che grondava filologia ed erudizione combinando la storia della filosofia medievale e dei movimenti ereticali con la suspence alla Sherlock Holmes (“Elementare, Adso!”): ci trasportò tutti in un’abbazia benedettina del Trecento e nella sua labirintica biblioteca, obbligò un Mostro Sacro del cinema come Sean Connery a vestire gli umili panni color cenere di uno scettico e deluso francescano ex-inquisitore che ricordava tanto Guglielmo d’Ockham (ma che era “di Baskerville”, come il mastino di Conan Doyle…), disegnò un capolavoro di ritratto del mistico reazionario Jorge da Burgos prestandogli i tratti e i pensieri del grande odiato-amato Luís Borges. Dopo Il Nome della Rosa, per tutti noi il medioevo non fu più lo stesso. Confesso che quello non è il mio romanzo echiano preferito: per molte ragioni, preferisco Il pendolo di Foucault. Eppure, quel racconto di frati inquisitori-investigatori e di eretici spaesati e bizzarri ha fatto epoca, come Il Signore degli Anelli in letteratura e come Il settimo sigillo e L’Armata Barncaleone al cinema.
Eco non ha mai cessato di stupirci, dall’invenzione del “suo” dipartimento nell’Università di Bologna (il DAMS: Arte-Musica-Spettacolo) fino agli appuntamenti settimanali della “Bustina di Minerva” ch’eravamo in tanti a non voler perdere nemmeno per una sola puntata. Spesso ci pettinava contropelo, ci scandalizzava; anche sul piano umano sapeva essere simpatico e divertentissimo, eppure a tratti – quando voleva: o quando non poteva fare altrimenti – si trasformava per diventar sprezzante, altezzoso, antipatico, insopportabile. Anche il suo rapporto con Dio era sopra le righe: giovane cattolico di ferro, militante di Azione Cattolica di un rigore piemontese che ricordava Giovanni Bosco e Pier Giorgio Frassati, diceva che una mattina si era svegliato scoprendo che Dio non esisteva e che Tutto era Nulla. Eppure continuava a sentirsi anzitutto e prima di tutto un medievista e a studiare il “suo” Tommaso d’Aquino, all’estetica del quale ha dedicato studi (recentemente ripubblicati) che sono diventati dei veri classici e che sono piaciuti a Étienne Gilson, a Rosario Assunto, a Massimo Cacciari.
Ci trovammo mesi fa, in un lungo tranquillo dopocena con altri amici, attorno a una tavola parigina. Non dissi nulla, ma lo trovai smagrito, un po’ stanco. Forse erano i primi segni della malattia che ce lo ha rapito. Scherzavamo sul suo giovanile cattolicesimo e sul mio pertinace “clericalismo”. Io gli davo dell’”apostata”, lui a sua volta dava a me del “superstizioso”. Poi mi disse: “E comunque io ti fregherò: andrò in paradiso prima di te”; “Non ti faranno entrare”; “Lo dici tu: Dio lo conosco, abbiamo letto gli stessi libri (era una sua vecchia battuta: alludeva appunto a Gilson, a Marrou, a De Lubac…); e poi sono amico di san Tommaso…”; “…ti ci sei arruffianato…”; “…è quello che ti dicevo: li conosco, sono vecchi amici: vuoi che mi lascino fuori? Ma non temere: in fondo sei un bravo ragazzo, vedrai che avranno misericordia. E io ti aspetterò sul portone, anche se sei un vecchio fascista”.
Ci conto, Umberto. Se mai arriverò su quella soglia, sbircerò dal portone socchiuso e aspetterò di vedervi, tu e Tommaso, sorridenti e corpulenti entrambi, lui nel suo severo abito bianco-nero e tu nel saio sbrindellato di Guglielmo di Baskerville. Spero che direte davvero per me una parola buona al Portinaio.