Fare i conti con la storia non è mai facile. Occorrono sguardo limpido e tempo. La Storia, la scrive chi vince le guerre. Ma se per paradosso si chiede di immaginare cosa sarebbe stato tutto il tempo, dal 1945 ad oggi, se la guerra fosse stata vinta dall’Asse, se il Fuhrer e il Duce non fossero morti nella trappola dei sogni di potenza. Nel cielo sopra la terra di Ucronìa non splende la Stella Polare: ci si perde a cercare una risposta. Che non è importante. Fare i conti con la Storia, però sì. Per smettere di imprigionarsi tra negazione ed onori. Negare la violenza quasi metafisica del nazismo è assurdo quanto esaltare agli altari della giustizia gli architetti del Nuovo Ordine Mondiale. Così in Italia ben vengano l’”Armadio della Vergogna” che lo scorso 16 febbraio la Camera dei Deputati ha messo in rete, il Museo del Fascismo, la polemica sulle Foibe rimosse dalla storia patria. La Germania ha fatto prima di noi i suoi conti col passato eppure ancora oggi un libro, “Morire in primavera” di Ralph Rothmann (Ed. Neri Pozza, 2016) innalza in Germania il canto del “memento”. Il dovere della memoria non può stare da una sola parte. Per citare Brecht “Fra i vinti la povera gente/ faceva la fame. Fra i vincitori /faceva la fame la povera gente egualmente”, e per parafrasarlo: fra i vinti e fra i vincitori la povera gente moriva egualmente.
Questo suggerisce “Morire in primavera” di Ralf Rothmann: un racconto lucido, essenziale, antidillico del morire di soldati tedeschi, di adolescenti- imberbi di corpo e di anima- mandati al macello del fronte orientale nel 1945. Il racconto crudo di un’amicizia, quella di Fiete e Walter stuprata dalla guerra, crivellata addosso al muro delle esecuzioni, restituita nella dolorosa presenza del simbolo- un cappotto dell’amico vittima indossato dall’amico assassino-, ricomposta nella dignitosa ricerca della normalità e nella sopravvivenza come identità.
Leggere “Morire in primavera” non promette epifanie storiche o etiche a chi sa le guerre per quelle che sono ovvero un’esplosione di istinto ferino. Rothmann con una penna fredda annota in un quadro dopo l’altro il cammino di Walter, diciassettenne tedesco della Gioventù Hitleriana, strappato alla sua già misera vita, tra gli orrori dei campi di addestramento e di prigionia, delle fattorie devastate dalle bombe e dai saccheggi, costruendo la trama di un ferale e rallentato videogame: la vittima passa da un ostacolo all’altro, cerca di raggiungere nell’ultimo frame il luogo della salvezza lasciando dietro di sé incendi, cadaveri, sporcizia, abbrutimento e alcool. E l’innocenza. Un gioco senza adrenalina di cui resta solo il lento viaggio con i suoi orrori. Due sono le immagini che è bene restino nella mente del lettore.
La prima evoca l’inferno nauseante della Salò della pellicola di Pier Paolo Pasolini.
“Il pianista era nudo fino alla cintola, una ragazza ballava su un tavolo vestita solo di una corta sottoveste. […]Il pianista contribuì con un trillo, e finalmente la donna chiuse gli occhi e pisciò un getto giallo chiaro e brillante in un alto arco sulla piastra di ghisa della stufa”.
La seconda è l’arrivo di Walter nel campo di prigionia americano:
“niente baracche o tende né tettoie per i soldati…non c’era niente da bere, da nessuna parte, e quando la sete diventava insopportabile Walter si metteva come tutti gli altri carponi e risucchiava a denti stretti l’acqua delle pozzanghere […]Dalla baracca degli americani usciva profumo di caffè, pancetta arrostita e sigarette”.
Nel suo scabro e scabroso polittico Rothmann vuole offrire un senso per la riconciliazione sebbene la malinconia silenziosa del sopravvissuto sembri piuttosto paventare quanto la riconciliazione sia lontana, complicata.
“Il silenzio, il rifiuto assoluto di parlare, soprattutto riguardo ai morti, è un vuoto che prima o poi la vita finisce per riempire di verità per conto suo”.
Il romanzo di formazione di Rothmann è una testimonianza e insieme la necessità di raccontare un tempo oltre il Tempo. L’epica antieroica e disumanizzante di tutte le guerre mentre la barbarie torna a bussare alle porte dell’Europa con lo sguardo disperato dei profughi, con lo strazio delle macerie e dei cadaveri dal Mediterraneo al Medio Oriente, con i giochi di potere ancora tra Russia e le varie declinazioni dell’Occidente.
“Morire in primavera” commuove. Strappa una lacrima, se non dagli occhi di certo dalle coscienze e dal sentimento di dignità della Storia. Lacrime memori delle cipolle in “Il tamburo di latta” di Günter Grass: le lacrime della riconciliazione della Germania con la sua Storia. Le lacrime che ogni pagina di Storia deve imparare a versare. Tra le vittorie e le sconfitte.
*Morire in primavera di Ralf Rothmann* (Neri Pozza)
*Ralf Rothmann (1953) è uno scrittore, poeta e drammaturgo tedesco, vincitore nel 1992–93 del Premio Francoforte-Bergen, del Literaturpreis der Konrad-Adenauer-Stiftung nel 2008 e nel 2013 del Friedrich- Holderin-Prize.