“Non chiamateci profughi”. E’ questo l’appello di Ferruccio Conte, esule di Dignano d’Istria, arrivato a Roma insieme alla sua famiglia, madre padre e due fratelli, per sfuggire alle persecuzioni dell’esercito jugoslavo. “Noi ci siamo spostati Italia per Italia, non siamo profughi, siamo esuli, siamo italiani”, spiega il signor Conte.
Quello che per alcuni è solo un cavillo terminologico, per altri è una ragione di vita, o di morte. Per chi, come Ferruccio, in nome della propria italianità è stato costretto ad un esodo doloroso, e per chi, per le stesse ragioni, giace nell’oblio delle famigerate gole carsiche.
Il discorso è troppo difficile da comprendere per la sensibilità contemporanea, plasmata su libri di testo e cartine geografiche che hanno ridisegnato la fisionomia di un popolo, insieme a quella della sua terra, in maniera chirurgica e spietata.
E’ difficile da comprendere anche per i viaggiatori. Oggi Dignano (città d’origine di Ferruccio, ndr.) non esiste più. Lo conferma Ferruccio, tornato una sola volta a Vodnjan, così come è stata ribattezzata “la sua città” in seguito all’annessione all’ex Jugoslavia. “Volevo rivedere la mia vecchia casa”, racconta.
“Era il 1970” – spiega Ferruccio – “quella è stata la prima e l’ultima volta che ho rivisto la mia città natale, il campanile, la strada dove giocavo da piccolo e la nostra casa. Lì tutto è familiare, tranne i volti delle persone che ci abitano e la lingua che parlano”.
Oggi Ferruccio ha più di ottant’anni. Vive nel quartiere Giuliano-Dalmata di Roma, ex villaggio operaio. “Non chiamateci profughi”, ripete. Anche perché per gli italiani come lui non sono stati costruiti ponti, né aperte porte.
“A noi è toccata un’accoglienza diversa”, se lo ricorda bene Ferruccio. “Consegnammo le chiavi di casa e partimmo per una destinazione ignota, portando con noi pochissime cose, verso una meta sconosciuta”, racconta l’esule. Fin qui nulla di diverso rispetto a quelli che si avventurano per mare e per terra, fuggendo dalla guerra, ma ai “nostri profughi” toccò un accoglienza non proprio “merkelliana” e nessun cordoglio da parte della stampa.
“Quando il treno sostò a Bologna” – racconta Ferruccio con un filo di commozione nello sguardo – “mio padre tentò di scendere per acquistare dell’acqua, il capotreno gli intimò di risalire ed il treno ripartì subito, in quella stazione non ci volevano, perché eravamo degli sporchi fascisti”.
Così il viaggio prosegue con la gola secca ed arriva, senza variazioni di copione, sino ai giorni nostri. Giorni in cui, al netto del doveroso riconoscimento di quella tragedia, gli esuli ancora attendono di esser risarciti, per quel poco che può significare il denaro in casi simili, delle proprietà che gli furono espropriate. E mentre l’Europa stanzia risorse per accogliere mezz’Africa, mentre il Governo e i partiti ripetono i soliti motivetti che piacciono ai giornali, ci sono italiani – e non solo profughi stranieri – che attendono di esser veramente accolti da oltre settant’anni.