Le sue parole sono tutte un’esclamazione, un’esplosione, una festa – non a caso, Roberto Gagnor fa uno dei lavori più belli del mondo, e cioè scrive storie per Topolino, coronando il sogno di quando era un undicenne con la passione per il fumetto nonché fan sfegatato del disegnatore Giorgio Cavazzano (con cui è arrivato a lavorare). Oltre a fare di mestiere lo sceneggiatore dal 2003, ora Gagnor la sua arte la insegna anche a chi ha la stessa passione, all’ICMA di Busto Arsizio e all’Accademia 09 di Milano, e poi è regista, autore televisivo e radiofonico. Ha firmato il cortometraggio Il numero di Sharon, un piccolo capolavoro di delicatezza e ironia, vincitore del concorso “Talenti in corto”, e la sceneggiatura del film tedesco Sommer auf dem Land. Cosa c’è di tanto bello nel fare lo sceneggiatore? Farsi sommergere dalle storie, storie osservate, storie catturate, storie immaginate, storie giustapposte, aprirsi mille strade, vivere non una vita, come tutti, ma molte di più, senza nemmeno prendere l’aereo. E poi dimostrare a chi diceva “non leggere fumetti, studia!” che i percorsi non sono sempre così duri, tristi e scontati come volevano farci credere. Nella vita, come a scuola, dovremmo imparare a strabuzzare gli occhi, mandare giù la saliva e fare qualche linguaccia di più.
La scuola di oggi riesce a dare agli studenti gli strumenti per affrontare le necessità di questo tempo? È ora di riformare radicalmente i suoi programmi? Partendo da cosa?
Dalla mia esperienza d’insegnante di sceneggiatura e scrittura creativa in due scuole di cinema, a Milano e a Busto Arsizio, posso dire che vedo arrivare allievi più motivati e magari più attenti al presente rispetto a qualche anno fa, e sicuramente più esposti a stimoli artistici di ogni tipo. Insomma, hanno visto più cose e sono più attenti a quello che vedono.
Ma allo stesso tempo, sono anche drammaticamente sprovvisti delle basi minime, quelle che la scuola dell’obbligo avrebbe dovuto dare loro, dalla cultura generale all’ortografia (che per una scuola di scrittura creativa non è poco, anzi!). E non sanno cosa c’è stato prima, per cui qualunque novità di oggi, che rimastica qualcosa di vecchio, per loro è originale e innovativa.
Penserei a una riforma sia di programmi che d’impostazione, partendo da un’idea: cosa abbiamo solo noi italiani, quali sono le conoscenze che costituiscono davvero la nostra cultura? Prima di tutto, la cultura umanistica, che dovrebbe tornare a essere una base fondamentale. Quella è la base per qualunque altro studio, anche quello scientifico: ma va presa sul serio, senza lungaggini, nozionismi, remore.
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Che cosa cambierebbe, che cosa toglierebbe, che cosa introdurrebbe?
Eliminerei un anno di medie (che in generale sono il ciclo più inutile) e due di università, concentrando gli insegnamenti più importanti ed eliminando parecchie materie inutili. Più inglese, più storia dell’arte, più cultura umanistica, più scrittura. Cercherei un numero chiuso in tutte le facoltà, formando meno persone, ma meglio. Pagherei meglio gli insegnanti, ma li vorrei più preparati e meno inamovibili dal posto di lavoro in caso di negligenze.
Come potrebbe una buona scuola favorire l‘inserimento nel mondo del lavoro?
Diventando più corta e più agile. Permettendo alle aziende di sponsorizzare e finanziare le facoltà di eccellenza, sia nell’ambito scientifico-tecnologico che in quello umanistico. Aprendola a stage e viaggi di lavoro all’estero per i ragazzi, il prima possibile.
È ancora sensato puntare a una pedagogia di tipo etico-astratto, idealistico, invece che funzionale? Non è un prendersi in giro fingendo vivo un universo di valori assoluti che la storia recente ha ucciso? La formula “serve per aprire la mente” non ha il sapore di un’illusione?
Secondo me no. Magari siamo stati troppo astratti e non abbastanza funzionali, ma l’apertura mentale, in ultima analisi, è spesso l’unica cosa che resta, alla fine della scuola. Io ho fatto il liceo classico, e non solo è stato fondamentale per la mia carriera successiva grazie agli studi di letteratura italiana, latino, greco e filosofia, ma mi ha insegnato il pensiero critico. A non fidarmi del primo guru, del primo politico, del primo comico (sì, sto parlando di Grillo) che pretende di spiegarti il senso della vita. Mi ha insegnato a ragionare su cosa dico e sul come lo dico.
L’alfabetizzazione di massa è un problema ormai superato. Varrebbe la pena lasciare, fin dalle elementari, più libertà di scelta agli studenti e alle famiglie, sia per quanto riguarda la possibilità di specializzarsi in certi ambiti piuttosto che in altri, sia per quanto riguarda gli orari in cui frequentare la scuola? Mantenere magari un minimo di ore obbligatorie e renderne facoltative e personalizzabili altrettante?
Purtroppo, non è poi così superato! Una quantità terrificante di errori di ortografia, mancanze lessicali e lacune di cultura generale di tanti allievi arrivano proprio dalle elementari, fino ad arrivare al famoso analfabetismo funzionale degli adulti. Io sarei per ore obbligatorie vere e utili, con una forte formazione di base, poi allargate ad altre discipline facoltative: restando a quelle che conosco, la scrittura creativa, il cinema, il fumetto.
Non è necessario, sempre, dalle elementari alle superiori, lasciare ai ragazzi del tempo per coltivare altre qualità oltre all’efficienza della mente?
Certamente. Tempo per il gioco, la lettura, la libertà. Per non aver nulla da fare, e pensare a chi vuoi diventare: un lusso per chi è più grande, un momento importante per l’infanzia e dell’adolescenza.
È vero, almeno qualche volta, che “lo stupido istruito ha solo un campo più vasto per praticare la sua stupidità”?
Magari lo stupido istruito, proprio perché istruito, si tratterrà dall’essere stupido. Ma non succede spesso: lo stupido è inarrestabile, perché non ha gli scrupoli, le remore, le prudenze di un intelligente, che vede più cose, dubita di più. Inoltre, non puoi spiegare a uno stupido perché è stupido… perché è stupido!
Scherzi a parte, uno stupido istruito ha almeno una possibilità di trattenersi. L’intelligente non istruito, invece, è come una Formula Uno senza ruote: un potenziale sprecato. E questo mi dispiace di più.