“La strada per un vero cambiamento sarà davvero lunga e tutta in salita” spiega il fotoreporter Fabio Polese*, che alla Birmania ha dedicato un reportage, pubblicato qualche giorno fa da Il Giornale. L’articolo focalizza l’attenzione sulla detenzione, lungi dall’essere sospesa, di elementi politicamente sgraditi. E’ vero, le elezioni dello scorso novembre hanno assistito ad una svolta, dopo un quarto di secolo di regime: il leader della Lega nazionale per la democrazia (NLD) San Suu Kyi è stata eletta premier e la nazione del Sud Est asiatico, forse, può iniziare il cammino verso la democrazia. Ma è davvero così?
Myanmar, San Suu Kyi: malgrado il poco tempo trascorso dalle elezioni, cosa è cambiato dall’avvicendamento di poteri?
Ancora non è cambiato nulla. La nuova legislatura del Parlamento birmano, guidato dalla “Lega nazionale per la democrazia” (NLD) del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, è stata inaugurata oggi con una cerimonia nella capitale Naypyidaw. Questo è stato il primo passo. Ora, entro due mesi, si dovrà decidere chi sarà il nuovo presidente del Paese. Ma la Suu Kyi, per via di una vecchia legge che vieta a chiunque abbia sposato stranieri o abbia avuto figli da quest’ultimi di candidarsi alla presidenza, non potrà essere il nuovo presidente.
Come San Suu Kyi pretende di affrontare il delicato tema del rispetto dei diritti umani?
I problemi in Birmania sono tanti, complessi e difficili da risolvere nel breve termine. Il problema più spinoso è sicuramente quello delle varie etnie che compongono il Paese e che da decenni combattono contro la giunta militare per richiedere l’autonomia. Su questo tema, la Suu Kyi, in un intervento alla giornata inaugurale della conferenza di pace che si è tenuta a Naypyidaw il 12 gennaio scorso, ha proposto la possibilità di costituire una “nazione federale”. Una proposta molto simile a quella che il padre, Aung San, aveva concordato con i principali gruppi etnici nel lontano 1947 attraverso il “Trattato di Planglong”, che stabiliva “un’unione federale della Birmania”. Il trattato, però, non è mai stato rispettato perchè, dopo un colpo di stato e l’uccisione di Aung San, il potere è passato alla dittatura militare dello spietato generale Ne Win. L’inizio di un incubo per i dissidenti politici e delle brutali violenze per i gruppi etnici.
In un suo recente articolo, lei ha parlato di rilascio di detenuti comuni e di continuazione della pena per i politici. Questo vuol dire che la transizione democratica è ancora lunga?
Il vecchio governo, guidato dall’ex generale macellaio Thein Sein, aveva promesso di liberare tutti i prigionieri politici entro la fine del 2013. Così, purtroppo, non è stato. I media hanno pubblicizzato che nell’ultima amnistia concessa dalle autorità birmane sono stati liberati 101 detenuti incarcerati nelle diverse galere del Paese. Ma di questi solo 52 sono prigionieri politici. Il resto, come avvenuto anche nelle amnistie precedenti, sono criminali comuni. Le principali associazioni per i diritti umani che controllano le condizioni dei detenuti di coscienza in Birmania non solo denunciano che ancora oggi ci sono più di 70 dissidenti incarcerati e oltre 400 in attesa di un regolare processo, ma anche che gli arresti per reati di opinione continuano. L’ultimo caso è quello di U Gambira, un ex leader della rivolta per la democrazia avvenuta nel 2007, arrestato il 19 gennaio scorso senza una motivazione precisa. Come continuano anche gli attacchi armati contro le etnie. Lontano dagli occhi indiscreti dei diplomatici, dei giornalisti e dove le associazioni umanitarie non possono arrivare legalmente, i soldati hanno lanciato offensive su larga scala. Attualmente, ci sono scontri a fuoco nello Stato Kachin, nel nord-est del Paese, al confine con la Cina. Nello Stato Shan e nello Stato Karen. Solo negli ultimi mesi, nelle zone di conflitto, si contano più di novantamila sfollati e centinaia di morti.
Quali ostacoli pensa incontrerà l’esecutivo Suu Kyi nella sua attività? Si tratta comunque del primo governo democratico in 25 anni…
Da 2011 ad oggi il vecchio governo ha iniziato una serie di riforme “democratiche”. Ma i generali che hanno controllato il Paese per decenni hanno fatto bene i loro conti prima di arrivare a quelle che il mondo ha erroneamente pubblicizzato come “le prime elezioni democratiche nel Paese”. La carta costituzionale, infatti, non solo riserva ai militari il 25 per cento dei seggi parlamentari indipendentemente dall’esito delle elezioni, ma continuerà a controllare il ministro degli Interni, della Difesa e quello per gli Affari di Confine. E soprattutto, sempre la vecchia giunta, è parte del Consiglio per la Difesa e la Sicurezza Nazionale, che può in qualsiasi momento bloccare o modificare le leggi che vengono considerate pericolose per l’unità e la sicurezza del Paese. Ecco, il partito della Suu Kyi, dovrà agire all’interno di questi limiti. Credo che fino a quando i militari avranno questi poteri, la strada per un vero cambiamento sarà davvero lunga e tutta in salita.
*Già autore del fotoreportage Kawthoolei, dedicato al popolo Karen.