Notte tra 28 e 29 gennaio 1870. Muore a Roma il Granduca di Toscana Leopoldo II Asburgo-Lorena, affettuosamente chiamato dai firorentini “Canapone” (da bambino “Canapino”) per quei suoi capelli biondi che ricordavano il colore della canapa.
Era nato a Firenze nel 1797 e – segno del destino? – a due anni già era stato costretto a lasciare la Toscana invasa dalle truppe napoleoniche. Tornò a Firenze con il padre Ferdinando III di Toscana nel 1814, dopo che il Congresso di Vienna aveva ristabilito il Granducato ingrandendo anche il suo territorio.
Nel 1817 sposò a Dresda (per procura) la principessa Maria Anna Carolina di Sassonia e due anni dopo la coppia partì per un lungo viaggio europeo.
Divenne Granduca alla morte del padre avvenuta a soli 55 anni nel giugno 1824 durante un viaggio in val di Chiana; tutta la Toscana pianse il “dolce sovrano” come se fosse morto uno di famiglia.
Leopoldo II diventò quindi Granduca a 26 anni, non molto dopo aver smesso….. l’allattamento. Sì perché a 17 anni, in seguito ad una grave malattia, i medici consigliarono un ritorno alle balie, all’allattamento al seno. Il “sorriso” dei fiorentini sulla questione fu subito smorzato dall’affetto per il giovane Asburgo-Lorena che si mise a regnare secondo le tradizioni di famiglia caratterizzate dalla generosità e dalla tolleranza.
Iniziò con l’abbassare le pressione fiscale, aiutò i comuni rurali , diminuì di un quarto la tassa sui terreni, provvedimenti per il mondo contadino toscano che derivavano anche da una particolare sensibilità acquisita negli studi di agricoltura (oltre che di diritto e di letteratura).
Nel 1828 si lanciò in una impresa enorme, la bonifica della Maremma senese e grossetana, il prosciugamento del lago di Castiglione, terre disgraziate e disperate che parevano destinate solo alla malaria e che invece, risanate, furono popolare e in parte destinate alla pastorizia.
E dopo la bonifica realizzò strade che favorirono i commerci, misero in moto l’industria e collegarono borghi e castelli ridando vita a territori abbandonati. Nella stessa logica, iniziò la costruzione delle prime ferrovie toscane tra Pisa e Livorno, inizio di un progetto di collegamento che si completerà vent’anni dopo con la Firenze-Livorno.
Il giovane principe non tralasciò la cultura, fondò lo studio universitario della Scuola Normale di Pisa (sul modello di quella parigina) con annesso convitto e riuscì ad attuare anche una riforma giudiziaria.
Ma in fondo in fondo a lui sarebbe piaciuto fare l’artigiano e appena poteva faceva il falegname andando in bottega e poi amava la scienza, si occupò anche di raccogliere e ordinare i manoscritti di Galileo Galilei ma anche della prosecuzione degli studi scientifici, dalla fisica all’astronomia alla medicina.
In questa logica e anche per la necessità di tecnici necessari per lo sviluppo dell’industria toscana, fondò l’Istituto Tecnico Toscano.
E Firenze e la Toscana divennero il polo di attrazione di uomini di cultura e anche di “esuli” grazie all’ambiente politico di fatto privo di censure.
A Firenze giunse anche lo svizzero Gian Pietro Vieusseux al quale il Granduca affidò la cura dell’Archivio storico italiano.
Fu avviata una nuova sistemazione urbanistica di Firenze e la nascita di nuovi quartieri conseguente all’aumento della popolazione. E ancora, nuovi ponti sull’Arno, lo sfruttamento industriale dei soffioni boraciferi di Pomarance, l’illuminazione a gas di Firenze, il telegrafo elettrico, l’industria del ferro (con l’azienda granducale Magona) che produceva un terzo di tutta la produzione italiana, e ancora le opere caritatevoli, l’aiuto ai bisognosi e gli ospedali per i malati.
Quello fu davvero il periodo della Toscana felix.
Nel 1832 la Granduchessa morì dopo una lunga malattia ma anche di dolore per la perdita in breve tempo delle tre figlie che la coppia aveva avuto. Morì a Pisa dove si era trasferita cercando un clima più mite, morì accompagnata dal pianto del marito che si risposerà anche per non correre il rischio di lasciare senza eredi il Granducato. Sposò una principessa Borbone, una diciottenne bellissima ma che non fu amata dai fiorentini che non riuscivano a perdonargli l’essere ignorante e parlare napoletano.
Quando nel novembre 1844 (già…. un altro maledetto novembre come quello del 1966) l’Arno “andò di fori”a Firenze, il Granduca si trovava a Poggio a Caiano. Oggi – traffico permettendo – ci si va in poche decine di minuti a Firenze ma in quell’inizio di novembre del 1844 non fu facile per Lepoldo II raggiungere Firenze, lo fece a piedi e in barca, mentre il maltempo continuava. Raggiunta la città organizzò i soccorsi: letti per chi aveva avuto la casa allagata, abiti e cibo per chi aveva bisogno e, rimboccandosi le maniche, iniziò la ricostruzione della città. Ma gli anni del dopo alluvione furono anche quelli dell’inizio del declino, una spirale che vide dapprima appannarsi e poi sparire il grande affetto che i toscani avevano per il loro Granduca. Tante le cause: crisi economica e dei raccolti, la propaganda risorgimentale che approfittò della mitezza granducale e fomentò rancori.
Si arrivò quindi al punto di rottura e gli eventi precipitarono rapidamente.
Nel volgere di un anno si giunse alla fine: a gennaio 1848 a Livorno, Domenico Guerrazzi che già aveva scontato brevi periodi di arresto per le sue congiure, sfruttò una situazione di crisi dei lavoratori del porto e (manovrando nell’ombra) riuscì a volgerla in sommossa. Il Granduca Leopoldo non poteva più tollerare un tale sfaldamento e allertò le truppe per una marcia su Livorno. Nel frattempo dette pieni poteri al marchese Cosimo Ridolfi inviandolo nella città in rivolta. Guerrazzi fu arrestato ma, al solito, uscì di prigione dopo pochi giorni (neppure un mese!).
Ma il vento della “libertà” ormai soffiava sull’Italia, tra guelfi, liberali, massoni e….. chiari intenti espansionistici….. dopo lo Statuto di Carlo Alberto, in gran fretta, Leopoldo II per tentare di salvare il salvabile, concesse lo Statuto Toscano.
Per tutta risposta, il giorno previsto per i festeggiamenti che avrebbero dovuto calmare gli animi, il barone Ricasoli si presentò in Palazzo Vecchio assieme ad altri, indossando la fascia tricolore.
Seguirono mesi nei quali accadde di tutto, anche che folle scalmanate entrassero in Palazzo Vecchio pretendendo …. Guerrazzi al governo e l’uscita di scena degli Asburgo-Lorena.
Ad agosto Livorno s’infiammò nuovamente e i ribelli poterono esibire migliaia di fucili. Leopoldo II nominò Giuseppe Montanelli (antenato del nostro contemporaneo giornalista di Fucecchio) governatore di Livorno e questi, per tutta risposta, arringò la folla sostenendo che i tempi erano maturi per ottenere una Costituente Italiana.
Come una palla su un piano inclinato si arrivò rapidamente alla fine e il 30 gennaio 1849 il Granduca raggiunse la famiglia a Siena, dove tra l’altro il popolo senese gridava “Abbasso la Costituente!” e manifestava il suo affetto per Leopoldo II; da lì nei giorni successivi raggiunse il Papa Pio IX a Gaeta.
Una volta tanto il tempo fu galantuomo, la dittatura del triumviro Guerrazzi ebbe vita difficile e soprattutto breve, finì ad aprile con le fucilate dei fiorentini ai livornesi che furono costretti, Guerrazzi in testa, a tornarsene in treno a casina loro (grazie alle ferrovie del Granduca).
Saggiamente e nobilmente Leopoldo II rifiutò l’offerta piemontese di rientrare in una Toscana “restaurata”.
Inevitabile l’invio di truppe da parte dell’Imperatore Franz Josef: il Feldmaresciallo Konstantin d’Aspre dette una sonora lezione ai livornesi e poi raggiunse Firenze.
Triste e dimagrito il Granduca sbarcò a Viareggio a fine luglio. Come il suo nobile animo gli imponeva, non ci furono vendette e perdonò bonariamente concedendo anche un’amnistia.
Dieci anni dopo, nel 1859 lo scenario dell’alleanza franco-piemontese in chiave anti-austriaca vide Leopoldo II scegliere la neutralità per il Granducato ma ancora una volta il vento dei tempi soffiò più forte e il 27 aprile il Granduca dovette nuovamente lasciare la sua amata città.
Al mattino una manifestazione al grido di “Viva l’Italia!” si era svolta in quella che oggi si chiama piazza Indipendenza. Poi erano partiti cortei e delegazioni, uno capeggiato da un fornaio, certo Beppe Dolfi. Al Granduca fu portato un ultimatum al quale fece rispondere che non accettava alcuna proposta ma che avrebbe abbandonato il Granducato. Nel pomeriggio, dopo aver salutato i fedeli in lacrime, assieme alla famiglia e con poco bagaglio lasciò Boboli da Porta Romana, passò in città e da via Bolognese prese la strada verso Vaglia e quindi Bologna. I fiorentini, lungo il percorso in città lo salutarono togliendosi il cappello. Il commento alla “rivoluzione” fiorentina lo fece il giorno dopo un ministro francese a Firenze: “Perbacco! E neanche un vetro rotto!”. Leopoldo e la famiglia si stabilirono a Vienna dove lo raggiune la notizia che i suoi sudditi avevano deciso l’annessione al Piemonte. Visse ancora per dieci anni, occupandosi nuovamente di agricoltura.
La morte lo colse a Roma dove si era recato per incontrare ancora Pio IX – in occasione dell’apertura del Concilio Vaticano I – e anche per il clima favorevole alla convalescenza per un malanno che invece degenerò. La Corte dei Savoia si mise in lutto per quaranta giorni!
Nel 1914, anno d’inizio della guerra civile europea, la sua salma fu riportata a Vienna e riposa nella Cripta dei Cappuccini.