Ray Ban, Barrow’s, Lacoste, ma anche coltelli e pistole. Di questi stereotipi si è nutrito per decenni il mito di San Babila e dei sanbabilini. A fare un po’ di chiarezza su ciò che è stata veramente quella stagione milanese di idealità e passione politica a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, arriva un libro autobiografico, San Babila, la nostra trincea, pubblicato recentemente per le edizioni Settimo Sigillo. L’autore è Cesare Ferri, uno dei protagonisti di allora approdato, negli anni, alla scrittura e alla drammaturgia.
Tutte le tue opere, soprattutto quelle teatrali, hanno un minimo comune denominatore: quella visione nicciana dell’esistenza che da sempre caratterizza il tuo pensiero. Anche a San Babila si respirava aria di “nichilismo attivo?”
Sicuramente già allora, nonostante l’attivismo, si leggeva e si studiava molto. Tuttavia quando si ha diciassette anni è difficile poter dire di essere nicciani, evoliani o guenoniani. Eppoi noi non eravamo certo tipi da stare dietro alle etichette o gente cui piaceva atteggiarsi a intellettuali. Bisogna sempre tenere presente che il pavone mostrando le penne mostra anche il deretano, e io personalmente credo che la cultura non sia un bell’abito da sfoggiare, ma qualcosa da custodire gelosamente dentro di noi e da utilizzare come guida nella vita.
Di certo posso dirvi che quello che si respirava a San Babila – per la verità lo si respirava già da prima, nella storica sede della Giovane Italia di Corso Monforte – era uno straordinario clima di solidarietà e di unione forte tra noi militanti. San Babila non si capisce se non si parte da Monforte. E infatti è proprio da lì che nasce il mio romanzo.
A proposito di nichilismo: in questo scontro di civiltà in cui siamo precipitati sembra sia tornato di moda parlarne, riferendosi a un Occidente sempre più privo d’identità e come tale più vulnerabile agli attacchi del fondamentalismo. Cos’è, la gente inizia lentamente a svegliarsi dal torpore?
Macché. La mia sensazione è che la maggior parte delle persone continui a spendere il proprio tempo convinta di vivere per qualcosa, senza rendersi conto di vivere per niente.
Perché quando ci si concentra solo sul benessere (quello tutto attaccato) e mai sul ben essere (quello staccato) si finisce a vivere del nulla e per nulla, senza lasciare alcuna traccia di sé. Non vedo sprazzi, dunque, del “nichilismo attivo” cui facevate riferimento voi, che poi altro non è che la consapevolezza che si sta attraversando il deserto.
Il deserto dei valori…
No, direi il deserto dei principi – come quello della lealtà, della gerarchia o della fedeltà – che sono stati declassati e trasformati dalla nostra società in valori. Oggi, infatti, sono i principi che mancano, non i valori.
Prendiamo per esempio il valore gerarchico: quest’ultimo oggi si riduce nel rispetto del ruolo che uno ha nell’ambito professionale, all’interno della propria azienda. Ma la gerarchia è altro: vuol dire riconoscere qualcuno che ti è spiritualmente superiore. è un rapporto tra maestro e discepolo, tra Marpa e Milarepa. Questo tipo di rapporto non esiste più così come ogni gerarchia è definitivamente saltata. Oggi ci sono solo grotteschi simulacri di quei principi originari.
Dunque contro il Califfo siamo spacciati?
Beh, di certo una tale condizione di fragilità non aiuta. Poi se ci aggiungiamo una bella dose di buonismo – che ci rende incapaci persino di riconoscere che quello dell’Isis nei nostri confronti è un vero e proprio tentativo di conquista – la risposta è sì.
L’Occidente ha sicuramente tante responsabilità che hanno contribuito a far esplodere il fondamentalismo islamico, ma adesso, mentre loro ci bersagliano, non è certo il momento di stare lì a fare distinguo e a colpevolizzarci: se uno mi spara addosso, io prima cerco di difendermi dal colpo, dopodiché vado a cercare l’armiere.
Chiudiamo tornando laddove siamo partiti: dopo “la vostra” San Babila arrivano gli anni Ottanta e l’individualismo edonistico della “Milano da bere” si porta via la stagione delle ideologie. A parlarne oggi tutti dicono che sia stato un bene. Ma tra gli anni di piombo dell’impegno politico portato fino alle estreme conseguenze e l’attuale individualismo delle giovani generazioni esiste una via di mezzo? C’è un modo per provare a cambiare il mondo in modo incruento?
Sono convinto che prima di qualsiasi tentativo di cambiare il mondo vada cambiato l’uomo. O meglio ricostruito. “Non è dei progetti che abbiamo bisogno, abbiamo bisogno di uomini”, diceva, molto saggiamente, Codreanu.
Dunque credo che la prima rivoluzione da fare sia dentro noi stessi, attraverso un percorso di crescita morale e spirituale. Intanto bisogna riequilibrare il nostro rapporto con le cose, perché noi le cose le possediamo solo nel momento in cui le compriamo, dopodiché ne diventiamo schiavi.
Poi occorre riscoprire il dialogo tra pari, la “nostra” scrittura, la “nostra” arte, ma soprattutto va recuperato il valore dell’esempio: l’autorevolezza di un uomo non dipende mai da ciò che quell’uomo dice, ma sempre e solo da ciò che egli davvero è e fa. Tutto quello che possiamo fare, quindi, è iniziare a seminare senza mai farci prendere dall’ansia dei numeri e del risultato.
Se da quella semina nascesse anche un solo robusto albero sarebbe un grandissimo successo: è in questo modo che iniziano le grandi rivoluzioni. (dal quindicinale diretto da Alessio Di Mauro, Il Candido)