Ricordo lo spaesamento della quarta ginnasio. La professoressa che consigliava libri, i classici da scuola. Li prendevi in mano e li trovavi di una noia impossibile. Nella lista c’era anche Leonardo Sciascia. Il giorno della civetta, non altro. Magari dopo Moravia. Magari dopo Simone de Beauvoir o cose peggiori e mal tradotte dell’Ottocento. Non lo prendevi neanche in mano, Sciascia, perché ti avevano già stroncato prima. E rischiavi di non leggere:
“La luce dell’alba intrideva la campagna, pareva sorgere dal verde tenue dei seminati, dalle rocce e dagli alberi madidi: e impercettibilmente salire verso il cielo cieco.”
O non leggere:
“Ecco che un’infermiera, passandogli davanti, per uno sfaglio improvviso del treno Candido se la sentì aderire e pesare come se la parete alla quale lui si appoggiava fosse diventata pavimento. Istintivamente mosse le braccia a impedirle di cadere, a tenerla sopra di sé: e fu come se il treno fosse rimasto agganciato a quel brusco movimento, a quella sospensione. Si sentì brancicato sopra il vestito: e non seppe mai se un momento prima o un momento dopo o nello stesso momento in cui lui cominciava a modellare il corpo di lei sopra il vestito, a brancicarla, a cercarla. Per l’intensità con cui le sue mani sentivano, ebbe in un lampo l’immagine di sé cieco: e che quel corpo limpidamente si disegnasse nella sua mente soltanto per i segni che il tatto ne trasmetteva. Lungamente si baciarono. Poi Candido sentì e vide, vide nella sua profonda e dolcissima cecità, se stesso e il mondo diventare una sfera di liquida iridescenza, di musica.”
Ho dovuto aspettare che si formasse il mio, ormai autonomo e insindacabile, giudizio per ritrovare Sciascia, almeno cinque anni dopo quel consiglio. Finite le letture da antologia incrinate dalla divisione in sequenze dei brani, sorde a ogni sfumatura della voce degli autori. La voce: prima di tutto dovrebbero insegnarci a sentirla e a riconoscerla (o a non leggere proprio). Alle elementari; tantissimo alle medie, fino a intriderci di suoni sensati e giusta armonia; trionfalmente e ormai sfondando tutti gli orizzonti del piacere (nel “furore dell’esercizio”), al liceo. Perché vera lettura non c’è se non si arriva a individuare la voce che pre-scrive il libro (e lo rende, quindi, necessario), a riconoscere dalla sua assenza il testo da accantonare.
“I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’è ditta dentro vo significando”: non è la sintesi della poetica dello stilnovismo, ma di ogni poetica.
Sciascia, dunque. Il romanziere più perfetto, più clamorosamente pedagogico del Novecento. Quello che dovrebbe stare in cima a tutte le liste di libri da consigliare ai giovani. Per lo stile, certo, tagliente e insieme lirico; duro, grave, lapidario e insieme capace di finezza e meraviglia, di sorrisi quasi buddici. Ma soprattutto per l’indole, l’indocile sincerità, la grande passione del vero, la nostalgia di un operare sociale (politico) all’insegna dell’onestà più limpida e temeraria. Dalla prima all’ultima sua pagina, quello che Sciascia cerca è verità. Ed è perfino ridicolo pensarlo scrittore di ‘cose di mafia’. La mafia è occasione, per Sciascia, al massimo pretesto. Il crimine da condannare è la malvagità umana, che si contorce in ipocrisia, che si affila in invidia, che si organizza in risentimento, che si esalta nel negare e nel reprimere (o deprimere, che è lo stesso). Il capitano Bellodi si rompe la testa cercando di sciogliere il viluppo di interessi che la mafia siciliana amministra da decenni con serena consapevolezza, ma soffre soprattutto nel riconoscere in quale palude di ignavia sprofondino i suoi passi. I colleghi, contenti di campicchiare, dello stipendio che passa lo stato (quindi insofferenti di fronte a ogni dubbio che si levi contro quello stesso stato). La gente: gli attori che ingombrano il palcoscenico delle nostre vite, che ci sbarrano la via dell’orizzonte, che vorrebbero soffocarci, che si avventano su di noi, inevitabilmente, perché spesso ne dipendiamo, o dipendiamo da un loro tacito consenso anche per sopravvivere biologicamente. Il primo capriccio di un vicino di casa, o di un parente storto, può essere calunnia, denuncia, condanna, spoliazione, come sa bene Candido, il protagonista dell’omonimo libello sciasciano del ’77.
In tutti i suoi scritti il cuore generoso di Sciascia sanguina di disperazione sociale (l’unico socialismo in cui crederà fino in fondo, in questo identico al Leopardi che parla di sé ne La ginestra). Si salvano, nel panorama, alcune eccezioni, e mai del tutto: il vecchio professor Roscio, oculista valente e capace di saggezze che arrivano alla concretezza dell’epigramma, di A ciascuno il suo, dice e non dice, alza per un istante il velo di Maya e poi preferisce approfittare anche di quello, al culmine di una vita in cui poco gli era mancato, e se lo appoggia sulle ginocchia. “Superficiale per profondità” direbbe Nietzsche, ma Laurana-Sciascia soffre di non poter avere alleata l’intelligenza del professor Roscio e un po’ della tragedia verrà anche da lì. Tragedia che, assolutizzando, è il terrore che si prova di fronte a un mondo ridotto a morta gora: estenuato dal tirare avanti minuto degli ignavi e dagli slanci abortiti delle intelligenze anche corrusche, ma non eroiche, che smuoiono nel tempo impoverendo l’umano con la loro diserzione (chi può dirsi vivo non sa tollerare la diserzione: non può, non vuole).
E allora chi si salva, alla fine, per Sciascia? Solo l’eroe, come sapevano i Greci, “trafitto da un raggio di sole”.
È di eroi, tra mille nobili pudori e sprezzature, che si occupa e occuperà sempre Sciascia (rispondendo alla fatalità dell’“ognuno riconosce i suoi”), fino a sigillarli tutti nel vice de Il cavaliere e la morte, così simile a sé sofferente. Perfino Aldo Moro è un eroe, di fronte ai traditori che ne permettono il macello, dopo avergli fatto corte intorno e aver dovuto a lui una catena di favori che li aveva alzati fino ai vertici della società. Eroe è il ‘monaco’, il solitario: appartato nella sua stanza di commissariato, dietro la sua cattedra di professore, nella sua prigione, o chissà dove, come Majorana.
È ovvio, fisiologico, il distacco di Sciascia dal comunismo, l’aver abbondato di ghigni amari verso un’impostura così morbida e ben dissimulata, impossibile da reggere per l’intelligenza onesta. Tra i compagni che allontanano Candido dal partito e il capomafia de Il giorno della civetta, il criminale conclamato giganteggia.
La disperazione, alla fine: dopo mille ironie, dopo innumerevoli sarcasmi. E’ l’amarezza sorda, straziante di chi voleva disinnescare la malvagità sociale e sente di non esserci riuscito, che quello che ha bloccato a destra è dilagato a sinistra, e viceversa. Ma le pagine di Sciascia non è alla disperazione che portano il lettore: tutt’altro. Sono un’esortazione potentissima a cercare anche lui il farmaco che guarirà il mondo dai suoi mali. E a quattordici, quindici anni è bene sapere che cosa vale la pena fare da grandi.