Cercando di evitare la serialità di processioni virtuali e coccodrilli, che la stampa generalista cerca di raffazzonare attorno alla figura di David Bowie, intendiamo in questa sede proporne una lettura alternativa, prendendo in esame quattro anni cruciali ed oscuri, ovvero quelli che vanno da Station to station (1976) a Scary monsters (1980). David Bowie, spesso e con qualche ragione, è stato criticato per mancanza di originalità, soprattutto dai musicofili nostalgici, ovvero da tutti quelli incapaci di coglierne l’essenza trasformista. Fu così che, di volta in volta, vennero scomodati come fonti d’ispirazione primigenia, Bob Dylan (il cantautorato acustico e bucolico degli esordi), Iggy Pop (l’animale teatralità), Lou Reed (il rock decadente e autodistruttivo), Marc Bolan (zeppe e pailettes del glam). D’altro canto, oltre all’ortodossia dei dinosauri, cerimonianti lagnosi di un passato “autentico” sempre migliore rispetto a quanto a venire, altri processi alla credibilità riguardarono il mutante Duca Bianco. Intendiamo precisamente le cadute stilistiche degli anni ’80, i ridicoli siparietti con Freddie Mercury, Mick Jagger e Tina Turner – l’abbraccio mortale del pubblico generalista, sempre pronto a preferire il bollito alla carne fresca – nonché le pasticciate soluzioni commerciali di dischi quali Let’s dance (1983) e Tonight (1984) o le insipide performance di una genialità inceppata come nel caso di Never let me down (1987) e Black tie, white noise (1993).
“Il modo per essere contro-culturale e avere un successo commerciale di massa è dire e fare cose radicali in una forma conservatrice. Come ha fatto McLuhan: scrivere un libro per dire che i libri sono obsoleti” e la citazione del cinico Andy Warhol può a ragione fare da sunto al ritorno “europeo” di Bowie che avvenne nella seconda metà degli anni ‘70. Il disco Station to station, vera e propria incubazione di quanto accadrà di lì a poco – il punk, la new wave, i nuovi codici artistici ed estetici, quando toccherà al Duca Bianco l’onore di essere imitato dai posteri – con la celebre trilogia berlinese. La peculiarità dell’album, solo sei pezzi tra i quali spicca l’itinerante e funambolica traccia omonima, risiede nell’adozione di eleganti e severe posture, ben tradotte in musica grazie all’ibridazione del soul con fredde soluzioni elettroniche di matrice tedesca. Disco paranoico e dopato, specchio degli incubi da polvere bianca, cabala esoterica ed assillanti mimiche naziste, che il cantante contribuì ad alimentare fondando così nuove ambiguità, sancirà la fine del baraccone colorato del rock tradizionale di matrice U.S.A., in favore di sperimentazioni che si alterneranno, da lì in poi, a pezzi di immediata fruibilità (Golden Years, in questo caso).
Nel 1977 le raffinatezze del freddo soul, candide in superficie quanto occulte dietro la patina glamour, lasciano posto alla glaciale trasfigurazione berlinese. L’artista, qui davvero precursore, contribuirà in modo decisivo a svelare tutto il fascino decadente della città del muro, molto tempo prima che annoiati studenti Erasmus la eleggessero a capitale alternativa. Low, prodotto con l’ausilio di Brian Eno, in questo senso può essere giudicato il vertice creativo di Bowie e forse il suo disco migliore di sempre. Dietro l’esca pop dei singoli Sound & vision e Be my wife, si dischiude un panorama sonoro austero, come se i quadri di Gustav Wunderwald, le foto di Helmut Newton o i film di Fassbinder e Wenders avessero trovato l’accompagnamento perfetto, la colonna sonora ideale per ammirare macerie seducenti. La Berlino di Bowie è memore del concept-album imbastito da Lou Reed nel 1973, ma a quella sordida visione romantica aggiunge uno sguardo ad est, oltre il muro; una visione allargata che sfocia nella monumentale traccia strumentale intitolata Warszawa. Manifesto sintetico di grande malinconia, il pezzo contrappunta classicismo tragico e sensazione di abbandono, dando tutta l’idea di un viaggio spazio-temporale a ritroso, nel cuore della disfatta europea. Stilemi che più tardi i Joy Division adatteranno coerentemente alle caliginose periferie di Manchester.
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A distanza di un anno, dalle medesime session esce Heroes ed il grigio immaginario metropolitano, rafforzato da una title-track che andrà ad insediarsi tra le migliori canzoni di tutti i tempi, si arricchisce di sfumature ulteriori. Accanto alle claustrofobiche Sense of doubt e Neukoln, alle ossessive stratificazioni teutoniche di V2-Scheneider, trovano posto timide gemme primaverili, come Moss Garden, e suggestioni eurasiatiche che già delineano i rapporti della città con la Turchia, così evidenti ad esempio nel quartiere di Kreuzberg e ben narrate poi dai CCCP – Fedeli alla linea in Punk islam. L’U-bahn sonico di Bowie muove umanizzando, con impressionismo da straniero indagatore, le rigide meccaniche dei Kraftwerk, per dirigersi sempre più lontano, indugiando in tentazioni sensoriali stranianti ma ancora intellettualmente tedesche: come non rammentare Junger dei Ludi africani o la Riefenstahl studiosa della cultura Nuba del Sudan? Interpretando con pertinenza l’idea di esotismo filtrato dall’occhio occidentale, così connaturata al declino europeo, David Bowie conclude il periodo berlinese nel più imprevedibile dei modi, ovvero innestando nel corpo artificiale dell’euro pop colto, massicce dosi di musica d’ispirazione araba e africana. Lodger (1979) si farà carico di ciò, tergiversando abilmente nei pressi una modernità cosmopolita e frugale, spensierata nell’ascolto della futile disco-music, ma già propensa a valutare il “crollo dei nuovi edifici” (Einsturzende Neubauten) con inquietante possibilismo. Valga qui come traccia chiave la pulsante Repetition.
Chiusa l’epopea berlinese, ben raffigurata al cinema dal film iperrealista Cristiana F. – Noi i ragazzi dello zoo di Berlino (1981), il Duca Bianco inaugura gli anni ’80 con il disco Scary monsters, ovvero l’imprimatur formale riguardo a tutto quello che di nuovo si muoveva su vinile, dall’incontro virtuoso di rock ed elettronica al sinth-pop più commerciale, passando per tribalismi concettuali che confermano quanto i confini perdano d’importanza davanti alla capacità di creare stilemi appetibili. Bowie fu il maestro riconosciuto, uno dei pochi assieme a Lou Reed e al sodale Iggy Pop, a salvarsi con attestati d’ammirazione dalla furia iconoclasta del punk – tesa a stanare i vecchi tromboni del rock passatista – degli anni a venire e ciò è ben testimoniato dalla nuova artificiosa trasformazione: la copertina di Scary monsters ci mostra un Bowie/Pierrot alienato e virato teatro kabuki. Ashes to ashes, Fashion, Up the backwards, Teenage wildlife, quasi citando a caso data l’uniforme alta qualità dell’album, preluderanno ad altre reincarnazioni di successo, traghettando così il Nostro verso remunerative rendite di posizione. Gli ammiratori più esigenti dovranno attendere fino al 1995, quindi all’uscita di 1-Outside, per riassaporare il gusto imprevedibile della sperimentazione, fino alle ultime eccellenti uscite discografiche e alla dipartita imprevedibile, avvenuta sotto il segno emblematico di un’essenziale quanto esaustiva stella nera. Anarchica come la morte: “E quando l’agnello aprì il settimo sigillo, si fece nel cielo un profondo silenzio di mezz’ora. E vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio, e furono loro date sette trombe. E allora il primo angelo die’ fiato alla tromba, e ne venne grandine e fuoco misto a sangue. E così furono gettati sopra alla terra, e la terza parte della terra fu arsa, e la terza parte degli alberi fu arsa, e fu arsa l’erba verdeggiante. E quindi il secondo angelo die’ fiato alla tromba e una specie di grande montagna di fuoco ardente fu gettata in fondo al mare, e la terza parte del mare diventò saggia. E anche il terzo angelo die’ fiato alla sua tromba. E dall’alto del cielo cadde una stella grande, ardente come fiaccola. La stella si chiamava Assenzio” (Il settimo sigillo, Ingmar Bergman, 1957).
@barbadilloit