L’unica vera utopia italiana è il posto fisso. Condizione trasversale che univa l’Emilia Romagna alla Sicilia prima dell’avvento del leghismo delle partite Iva, e che ora è un desiderio clandestino come un tempo certe perversioni sessuali, per questo viene ripescata da Checco Zalone e Gennaro Nunziante in Quo vado? Parafrasando il filosofo Renzo Arbore: nella vita stai bene fino a quando sei legato alla scrivania di un pubblico ufficio, che dopo lo sdoppiamento dei telecomandi rimane una delle poche certezze del Novecento. Purtroppo è sempre più difficile conservare il posto fisso, come sa Zalone – Luca Medici – tocca lottare contro le riforme che provano a minare la tranquillità dell’uomo medio italiano.
Intossicato da un ministro smanioso di lasciare il segno e trasformare in cifre e percentuali il suo attivismo, e da una funzionaria zelante che vuole assecondare il ministro e far carriera entrando nel suo staff, Zalone, prova a difendere la vera grande conquista della prima repubblica: una vita tranquilla in compagnia delle tredicesime, con aspettative, malattie e regali annessi. Zalone e Nunziante conoscono gli orizzonti italiani, meglio di Ilvo Diamanti, così i momenti decisivi diventano quiz, momento di ascensione sociale e possibilità di accumulo di soldi e fama: che dal senatore Mike Buongiorno fino al deputato Gerry Scotti hanno scandito le loro sere mansuete, che solo Renato Curcio prima e i giudici comunisti dopo hanno provato ad alterare. Il resto è reality: come a Lampedusa, dove Zalone si trova a passare nel suo forzato tour di mobilità – che lo porta dal Polo Nord all’Africa a masturbare orsi polari ed elefanti in nome della ricerca –, facendo in tempo a scegliere un mediano dai piedi buoni che manca all’Italia, per gli altri non c’è posto, in fondo si gioca in undici. Dalla tivù al calcio il sociologo Zalone sa dove ammiccare, e colpire, lavorando sull’innamoramento per la civiltà della società norvegese – che alla lunga stanca –, arrivando a violentare i suoi principi, che cedono a una tavola multiculturale, alle partite di calcio senza imbrogli e all’attesa per il semaforo verde. Ma Zalone oltre al suo santo protettore il senatore Nicola Binetto – interpretato dal Cirino Pomicino del cinema italiano: Lino Banfi, che urla alla sua maniera il mantra ideologico sul quale si regge il film e il paese: il posto fisso è sacro –; da suo padre Peppino – Maurizio Micheli indimenticabile ne la carriola con Laura Antonelli in Rimini Rimini– che aspetta il riconoscimento della malattia professionale per avere i duecento euro in più al 27 del mese; e soprattutto Albano e Romina Power ricongiunti a Sanremo capaci di generare una saudade pugliese che riporta Checco a casa dopo l’innamoramento norvegese e il catechismo verde, alla Franzen, di Valeria, ricercatrice e donna – troppo – libera (che finirà per cambiarlo), ma soprattutto quando deve cantare l’inno della prima repubblica, Zalone, sa che c’è una sola voce conforme, una sola voce capace di incarnare il populismo, e lo spirito di quegli anni: Adriano Celentano, che gli basta imitare con una smorfia per riallacciare il pubblico a quella Italia felice, che mentiva a se stessa ma non era ossessionata dalla Merkel e dall’Europa, che non era costretta alla raccolta differenziata, e che poteva lasciarsi corrompere senza correre il rischio di finire in un pezzo di Marco Travaglio. Finendo per disegnare un vero albero genealogico della sua capacità pop, così ampio da farci entrare tutti.
Poi, purtroppo, il realismo magico democristiano non ha più funzionato e tocca rimpiangerlo a cinema. È un film a tempo, sì, come un governo balneare, serve a votare poche leggi, a far passare per la stanza dei bottoni alcuni uomini e a farne scendere altri. Ispirato a una sapienza lontana e vicina insieme, che sposta la commedia di Natale dalle stanza da letto alle cucine, porta all’estero un ragazzo di provincia che sa starci meglio di Boldi e De Sica, perché è un Sordi che non ha tenuto Andreotti sul sedile posteriore del suo taxi e nemmeno a cena in famiglia, ma l’ha solo guardato in tivù, gli manca la militanza cinica. In quella distanza c’è il cambiamento, oltre alla versatilità di Zalone che, a dispetto della maschera, legge, gira e ascolta, e va oltre le indagini demoscopiche. Non è Verdone perché non ha alle spalle Sergio Leone e non ha un padre che gli spiega l’espressionismo tedesco – che sarebbe capace di sbertucciare –, però ha colmato il deficit culturale che divideva l’elettorato italiano.