Come sempre il Giappone è stato capace di proporre anche in questi ultimi anni dei film di grande interesse. In questa essenziale panoramica indicheremo quelli che a nostro avviso hanno, in un modo o nell’altro, rappresentato al meglio la Settima Arte nipponica. Trattasi chiaramente di scelte soggettive, essendo il risultato del gusto di chi scrive; per tale ragione, ad esempio, molti dei titoli citati appartengono al cinema di animazione o a quello di genere. Infatti, siamo convinti che sia proprio nel genere che la cinematografia nipponica riesca spesso a confermare la sua unicità.
Cominciamo per l’appunto con un lungometraggio di animazione: Paprika (2006) di Satoshi Kon. Paprika è un personaggio provocante e divertente, una sorta di viaggiatrice onirica che aiuta le persone a capire meglio la propria vita. Universi immaginari, ironia e suspense; con una storia, come accade sovente nel caso di Kon, dalla trama non lineare, ma che offre tuttavia un autentico piacere visivo. Sfortunatamente, questo talentuoso autore non potrà più regalarci altre opere di questo livello, essendo prematuramente scomparso nel 2010.
Dello stesso anno è Gamera the Brave, con la regia di Ryūta Tasaki. Questo è il 12° episodio dedicato a quello che è, insieme a Gojira, l’assoluto protagonista del mitico kaijū eiga: quei film di mostri con i quali sono cresciute intere generazioni di spettatori. Ci sentiamo di consigliare questo titolo ai lettori perché si tratta del miglior kaijū eiga degli ultimi anni, dunque di un tipo di film che costituisce una parte fondamentale della cinematografia nipponica. Vi è comunque un aspetto davvero interessante della pellicola che è utile segnalare. Sarebbe a dire, il passaggio dalla solita magniloquenza della devastazione urbana, a una maggiore attenzione verso i drammi dei singoli individui che tentano di salvarsi la vita in città che vengono sbriciolate dalla furia dei mostri, conferendo così alla narrazione un nuovo taglio piacevolmente intimistico.
Torniamo nel mondo animato con Sword of the Stranger (2007) di Masahiro Andō. Questa coinvolgente storia di samurai è un ottimo esempio della qualità delle produzioni animate giapponesi: scene dettagliate e fluide, fondali molto curati, un character design capace di esaltare l’icona immortale del samurai e una sceneggiatura avvincente, la quale alterna spettacolari combattimenti a sequenze introspettive, mostrando un Giappone molto vicino al polveroso e spietato West di Sergio Leone. Forse è una chicca solo per appassionati, ma che può interessare anche un pubblico che ama un’azione che non sia solo fine a se stessa
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Sword of the Stranger conferma l’attenzione che la cultura popolare giapponese nutre tuttora verso il proprio genere “cappa e spada” (chanbara), che, insieme agli anime e al sopracitato kaijū eiga – alcuni critici magari storceranno il naso leggendo queste nostre parole – ha permesso al cinema dell’Arcipelago di essere apprezzato e amato in tutto il mondo, ancor di più che per le pellicole dei grandi maestri, premiate nel tempo nei vari festival.
United Red Army (2007) di Kōji Wakamatsu è probabilmente il miglior film incluso in questo nostro breve resoconto. Narra di un episodio veramente accaduto in Giappone nel 1972, legato agli ambienti della estrema sinistra. Iconoclasta come suo solito, Wakamatsu affresca una vicenda politica vigorosa, quanto liricamente folle dal punto di vista ideologico. Un film che ammonisce la coscienza delle persone nel non perdersi dietro a idee da cui si può essere fatalmente soggiogati. Una opera rara, giacché profondamente politica, un argomento che spesso i cineasti nipponici preferiscono evitare, che riecheggia le atmosfere di quella immortale pellicola che è Notte e nebbia del Giappone (1960) di Nagisa Ōshima.
Non potevamo ovviamente dimenticarci di Departures (2008) di Yōjirō Takita, che ha riportato l’Oscar come Miglior Film Straniero in Giappone. Il film propone una storia toccante, nella quale si affronta con coraggio un tema scabroso come la morte e lo si fa con quella grazia tipicamente orientale, priva degli isterismi occidentali quando si ha a che fare col trapasso. Una pellicola commovente, capace di suscitare emozioni sofisticate anche al cospetto della Nera Signora, con una liricità propria di un popolo che come nessun altro è capace di affrontare il dolore con coraggio e dignità, il disastro di Fukushima del 2011 ne è un chiaro esempio. Per noi che veniamo da una tradizione cristiana la morte rimane pur sempre un tabù. Invece, per una cultura come quella giapponese, che malgrado la modernità resta ancora parzialmente intrisa del pensiero buddhista, che si regge sul concetto chiave di impermanenza, essa rappresenta solo un passaggio nella vita di una persona, spesso nemmeno quello finale.
Air Doll (2009) è una opera che porta la firma di Hirokazu Koreeda: icona di molti cinéphile del cinema del Sol Levante. Autore difficile Koreeda, poco incline a farsi amare dal pubblico “comune”, proponendo spesso storie molto lente ed elaborate, dove incontriamo una continua riflessione sul significato della esistenza. Il film in questione racconta la vicenda di una bambola gonfiabile che diventa sempre più umana, e che finisce per innamorarsi del suo proprietario, commesso di una videoteca. Di primo acchito, la trama di Air Doll potrebbe ricordare quella del manga Video Girl Ai (1990 – 1993) di Masakazu Katsura, ma non ne raggiunge però appieno le intense vicende sentimentali, essendo eccessivamente concentrata sull’aspetto formale, malgrado l’idea di base sia assai intrigante nel presentare questo “erotico pinocchio”, epitome di alcune ben note morbosità sessuali tutte giapponesi.
13 Assassini (2010) di Takashi Miike è una acuta rappresentazione della fine dei valori collegati al mondo dei samurai. Egli è un regista che ama stupire e provocare, dalla palese misoginia, ma che ci ha finalmente regalato una opera di alta qualità formale e narrativa, non inseguendo come suo solito un irritante senso della repulsione. Se è vero che Miike anche in questa occasione non nasconda affatto la sua proverbiale irriverenza, prendendo in giro la cultura samuraica, con la sua ferrea disciplina, bisogna però riconoscere che nel suo film non manca certo una intelligente e competente riflessione sull’imborghesimento dei samurai, cristallizzati in un’estetica cinematografica che sa fondere abilmente ironia e violenza. Miike, sempre incline a mostrare il lato meno virtuoso del suo paese, compie la più felice delle mediazioni, con uno strano miscuglio di idiosincrasia e curiosità per le proprie radici storiche.
Thermae Romae (2012) di Hideki Takeuchi è una opera originale e sorprendente, dove si passa dal Giappone contemporaneo alla Roma Antica, grazie ai continui salti nel tempo del protagonista. Ispirata al fortunato manga omonimo di Mari Yamazaki, la pellicola ci regala una narrazione che accumula gag su gag e si contraddistingue per una comicità decisamente nipponica, a metà tra il demenziale e l’infantile. Trattasi di un simpatico tributo filmico al legame tra due enormi civiltà, che ci ricorda quanto sia sempre stata forte la mutua fascinazione tra il Giappone e l’Italia; non a caso i nostri musei spiccano in Occidente per le loro impareggiabili collezioni di arte giapponese – purtroppo noi, puntualmente, non conosciamo quello che abbiamo – come del resto il celeberrimo ritratto dell’Imperatore Meiji è stato realizzato proprio da un nostro connazionale: Edoardo Chiossone (1833 – 1898).
Siamo partiti con una pellicola di animazione e con una di animazione intendiamo concludere. La storia della Principessa Splendente (2013), di un maestro del calibro di Isao Takahata, storico sodale di Hayao Miyazaki, è un piccolo gioiello dalla squisita qualità formale. Una vicenda intrisa di quella raffinatezza giapponese del periodo pre-samuraico, così legata alla Natura, la quale ci viene ben mostrata in questa opera dove traspare un autentico amore per il disegno. Il film di Takahata ripropone molti di quegli elementi tipicamente nipponici: l’eleganza femminile e la sofisticata estetica del vivere quotidiano. Un meraviglioso “viaggio visivo” nel Giappone tradizionale, dove la grazia la si ritrova nella semplicità e che ci rammenta come gli autori del Sol Levante siano stati i primi, e in buona sostanza quasi gli unici, a coniugare arte e intrattenimento nell’ambito del cinema di animazione, come accade in questa pellicola, capace di affascinare indistintamente adulti e bambini.
Certo, i tempi di Mizoguchi, Ozu, Naruse e Kurosawa sono lontani. Resta il fatto che il Giappone continua a proporci film particolari e interessanti, in una epoca che vede la Settimana Arte non sempre davvero ispirata, a causa dell’appiattimento di molte sceneggiature su delle tematiche che trovano facile apprezzamento tra gli spettatori, penalizzando in tal modo la ricerca e la sperimentazione.