Il carattere delle persone non si rivela mai così chiaramente come nel gioco.
Lev Tolstoj
Intabarrato in un impermeabile chiaro, sguardo semistorto e battuta pronta in quell’italiano mezzo stentato che è tipico di chi è nato alle falde dei Balcani. Vujadin Boskov è stato il tenente Colombo del calcio italiano. Arguto, ironico, geniale: capace, indifferentemente, di vincere lo scudetto con la Sampdoria dei gemelli del gol Vialli e Mancini e di guidare l’Ascoli del presidentissimo Costantino Rozzi verso l’impossibile obiettivo di una salvezza persa già prima che arrivasse alla tana del Picchio.
Boskov è una delle icone del calcio italiano, simbolo stupendo di ciò che deve avere un allenatore per entrare nella storia del football nostrano e, quindi, nella leggenda delle mille patrie che, puntiformi, compongono il mosaico del Bel Paese.
C’è però un’altra storia da raccontare su zio Vuja. Che non sa (quasi) nessuno: quella volta che Boskov, insieme ad altri dieci ragazzotti slavi, sfidò (e vinse) Iosif Stalin.
Esterno giorno, Tampere in Finlandia, stadio Ratina. Si giocano le Olimpiadi di Helsinki, anno di grazia 1952. Il mondo è uscito dal secondo conflitto mondiale e alla guerra guerreggiata s’è sostituita quella vagheggiata, sospinta, suggerita, minacciata, il gran conflitto freddo tra Usa e Urss. Mosca, dopo aver superato in scioltezza le problematiche dottrinarie in merito all’opportunità di concepire lo sport come competizione borghese tra individui, ha deciso che deve dominare i giochi olimpici organizzati in Finlandia. In tutte le discipline, sia chiaro. Il calcio, cioè il futbol’, è quello su cui si punta di più. Non foss’altro perchè le gesta di Spartak, Dinamo, Cdka e Zenit fanno strabiliare le masse popolari che si arrancano negli stadi del regime sovietico.
A Belgrado, invece, la Jugoslavia si prepara alla spedizione con la baldanza balcanica che nasconde la paura delle mille insidie politiche e sportive che l’impegno nasconde.
Il torneo finlandese era cominciato in scioltezza. La spedizione jugoslava aveva strapazzato l’esotico ardore dell’India. Dieci a uno per i biancorossoblù. In quella partita scese in campo, per la prima volta con la casacca della nazionale, il ragazzo di Novi Sad: Vuja Boskov, metronomo di centrocampo. Non ci fu troppo tempo per godersi il successo perchè il tabellone giocò col destino. La sorte si diverte, come è noto, a farsi beffe dello spirito del tempo. E dato che il regime di Belgrado aveva appena rotto con Baffone, il fato decide di mettere l’una contro l’altra le due rappresentative. Si giocherà Urss-Jugoslavia.
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L’Urss c’ha uno squadrone, accreditatissimo alla vittoria finale: Vsevolod Brobov, seppur acciaccato e in là con gli anni, rimane sempre un centravanti devastante. E poi c’è l’anima della squadra (e dello Spartak Mosca), Igor Netto, uno che prima di arrendersi si sarebbe fatto ammazzare sei volte, a dispetto di tutte le leggi della scienza e della fisica. In porta, ruolo il più sacro per la narrazione del calcio in terra russa, c’è Leonid Ivanov per dimenticare il quale l’Urss ha avuto bisogno di stropicciarsi gli occhi davanti all’incarnazione per eccellenza dell’estremo difensore, Lev Jascin, il Ragno Nero. In panca c’è Boris Arkad’ev che tra la Neva e gli Urali se non è leggenda poco ci manca: è stato il modernizzatore della pedata Urss. Però non si può divertire troppo dato che subisce le ingerenze dell’allegro caravanserraglio politico al seguito della spedizione pallonara.
Gli jugoslavi non saranno la sorpresa del torneo ma non hanno nulla da invidiare ai sovietici. L’edizione del ’48, l’hanno chiusa al secondo posto dietro la Svezia dei mitologici Gre-No-Li. Bastasse, poi, solo il fatto di sapere che, loro, non hanno niente da perdere a differenza dei colleghi Cccp, tormentati di notte e di giorno da quell’incubo chiamato Siberia. Hanno estro e fantasia, ottimi calciatori e un gioco discreto. L’ossatura della Stella Rossa di Belgrado con i pregevoli intarsi di Partizan, Dinamo e una gemma fiorita nella provincia profonda, a Novi Sad. Già, Vujadin Boskov è la stella della periferia del calcio jugoslavo. Un miracolo, per uno che gioca dove non si può vincere mai, essersi ritagliato un posto fisso nella nazionale balcanica. Forti, si diceva. Sono, però, incostanti. Da qui saranno messi a coltura i germi che faranno degli jugoslavi i “brasiliani d’Europa”. Nel bene e (soprattutto) nel male.
Sarà partita secca, chi vince va avanti e potrà ambire a sfidare la Squadra d’Oro, l’Ungheria di Puskas e compagnia calciante.
È il 20 luglio 1952, alle 19, ora locale, il fischio d’inizio lanciato nell’aria tesissima dall’arbitro inglese Arthur Edward Ellis (una specie di celebrità tra le giacchette nere del calcio dei pionieri, fu guardalinee a Rio de Janeiro nel giorno dei giorni, quelli del Maracanazo) dà inizio alle ostilità. L’Urss si getta, lancia in resta, all’assalto della porta slava, difesa da Vladimir Beara, il grande portiere croato che gli dei del calcio strapparono alle muse della danza classica cui era destinato. Gli slavi reggono bene l’urto e rintuzzano i sovietici, al 29’ segna Ratko Mitic, Zvezdine Zvede, la stella della Stella Rossa di Belgrado. Raddoppia Tihomir Ognjianovic, centrocampista di Subotica. E quindi arriva il turno di Branko Zebec, mediano bandiera dei becchini del Partizan. Al primo tempo, l’Urss è già sotto di tre reti a zero. Ci si potrebbe rilassare non fosse per il redivivo Brebov che accorcia le distanze al 53esimo dopo il quarto gol, firmato ancora dall’altra bandiera grobari, Stiepan Bobek (al 46esimo). Alla rete sovietica replica, ancora, Zebec e fissa il punteggio sul 5-1 al 57esimo. Adesso ci si può rilassare.
E nemmeno, perchè Bebrov è entrato in palla, Netto ha preso in mano le redini del destino suo e dei compagni, i sovietici macinano gioco con la forza della disperazione e il carro armato al centro dell’attacco russo ne fa altri due a distanza di dieci minuti, al 77esimo e all’87esimo. Prima di lui era stato Vassilij Trofimov a bucare la porta di Beara. È 5-4 quando, a un minutino dalla fine, è il vecchio Aleksandr Petrov, labaro della squadra dell’esercito Cdka-Cska, a impattare. Cinque a cinque, i supplementari si trascinano vani e vuoti. Il diavolo non ha ancora inventato la roulette dei rigori e, perciò, tocca rigiocare. Ci si vede tra due giorni, stesso posto stessa ora.
Esterno giorno, 22 luglio 1952, ore 19. Di nuovo Ellis (che non sa ancora che dirigerà due finali mondiali e la prima supersfida finale di Coppa dei Campioni) a dirigere la sfida che sarà seguita, con ansia, da Stalin, Berija e i loro tirapiedi.
I sovietici vengono da una prova d’orgoglio senza precedenti. Però Arkad’ev è stato costretto a sottostare ai ridicoli desiderata della dirigenza. I funzionari Urss hanno preteso che i calciatori affrontassero una doppia seduta d’allenamento prima della sfida decisiva. E poi hanno deciso chi doveva scendere in campo e chi no, indicando al mister di schierare Avtandil Cukaseli (georgiano del Dinamo Tbilisi che si dicesse fosse il cocco degli amici del Pcus e che, dicono, non parlasse nemmeno russo) al posto del navigato Marjutin, onestissimo veterano dello Spartak.
Gli jugoslavi sono sereni e motivati. Sanno dell’importanza geopolitica della sfida e sono perfettamente a conoscenza del fatto di essere gli alfieri dell’orgoglio nazionale giunto, persino, a sfidare il piccolo padre (tremendo) Stalin. Decisi a giocarsela, scendono in campo determinati a vincere. E, cosa fondamentale, non cambiano nemmeno una pedina dell’undici da mandare sul rettangolo spelacchiato del Ratina Stadium di Tampere.
La partita si mette subito in discesa per l’Urss. Bobrov raschia il fondo del barile delle sue energie e trae quel poco di forza che serve a piazzarla, da oltre venti metri, alle spalle di Beara. Sesto minuto di gioco, i russi sono in vantaggio. Però il talento e la forza d’animo hanno la meglio sulla stanchezza, fisica e nervosa, dei ragazzi di Arkad’ev che si chiudono a difesa dell’esiguo vantaggio. I balcanici ballano e fanno ballare la difesa sovietica. Al 19esimo è Mitic a impattare su preciso assist di Zebec. Poi la confusione induce il difensore Anatolij Basaskin a toccarla con le mani, spingendo l’arbitro Ellis a fischiare il rigore che Brobek insacca. Il primo tempo non è ancora finito e la Jugoslavia ha già chiuso la pratica. Al 54esimo, il sigillo finale che porta la firma del capitano Zlatko Cajkovski: sottrae la palla a un avversario e avanza verso la porta di Ivanov, ma non c’è nessuno che abbia più un sol grammo di forza per contrastarlo. Finisce tre a uno. Con l’artigliera di Karlovac che spara a salve, nel cielo balcanico di Jugoslavia, per celebrare la vittoria delle vittorie.
I giochi olimpici andranno avanti. E li vincerà una squadra la più forte del tempo. Una compagine rivestita tutta d’oro e talento, l’Ungheria del colonnello Puskas e dei legionari della Aranycsapat. E fu proprio contro l’armata magiara s’infranse il sogno olimpico di Boskov e dei suoi fratelli. Due reti a zero, valigia pronta e ritorno a casa. Da vincitori, nonostante tutto.
Un trionfo di cui Vuja Boskov fu protagonista, alla sua prima esperienza internazionale fuori dall’amatissima Novi Sad. Un trionfo di cui parlerà tantissimo, in famiglia. Nel 1952 non sapeva ancora che avrebbe cambiato il modo di fare, dire e vedere calcio in Europa. Non poteva sapere che avrebbe litigato con il maresciallo Tito nè che avrebbe vestito, da calciatore prima e allenatore dei miracoli poi, la casacca della Sampdoria. Nè poteva sapere che, per primo e da commissario tecnico, strapperà un titolo di Jugoslavia alle armate di Belgrado e Zagabria portando, finalmente, il Vojvodina di Novi Sad fuori dalla dimensione periferica del pallone balcanico.
Una storia, quella di Helsinki, che si mischia, interseca in mille altre facendo di Vujadin Boskov il mosaico di calcio, vita e umanità che l’Italia ha amato sul serio.