L’editore milanese Milieu, specializzato finora in biografie e memoir di banditi famosi e saggi controcorrente, ha da poco ripubblicato «C’era una volta in America», un curioso libro che il giornalista, scrittore e critico letterario Diego Gabutti pubblicò una prima volta con Rizzoli nel 1984, a ridosso dell’uscita dell’ultimo film di Sergio Leone. Un volume curioso, si diceva. Non è un saggio, non è un romanzo, non è un reportage giornalistico e neppure una biografia del regista romano. Raccontato dalla voce dello stesso regista, e scritto con la sua complicità, il libro è invece una miscela di intervista, memoriale e diario di bordo degli incontri fra l’autore e Leone e ripercorre tutti i suoi film, come dice Gabutti «l’opera cinematografica forse più sottovalutata della storia del cinema». Ne abbiamo parlato con l’autore, in un’intervista senza complimenti né peli sulla lingua.
Il libro viene ripubblicato dopo 31 anni e a 26 anni dalla morte di Sergio Leone. Quanto è rimasto di lui nel cinema e nella cultura italiana?
«Non c’è mai stata un’influenza dei film di Leone sul cinema italiano, tranne che al tempo degli spaghetti-western, quando i suoi film erano banalizzati e fraintesi da una pletora d’imitatori. Leone è stato un esempio per il giovane cinema americano degli anni Sessanta e Settanta. Era il regista preferito di Coppola, di Scorsese, di Lucas e di Spielberg. Chi ne apprezzava l’umorismo, chi l’arte di dirigere gli attori, chi gli eleganti e solenni movimenti di macchina, chi la natura aforistica dei dialoghi. Clint Eastwood, che gli deve tutto anche come regista, non è tra i suoi ammiratori dichiarati, anche se in ogni suo film, naturalmente, c’è qualcosa di Leone (a cominciare dalla sua faccia, dai suoi primi piani). In Italia – anche dopo C’era una volta in America, che non è il suo film migliore (il miglior film di leone è senza discussioni C’era una volta il west) ma che è il suo solo film esaltato dai nostri critici parrucconi – è stato sempre amato dal pubblico e detestato dal milieu cinematografico. Critici che considerano Pasolini un regista cosa possono capire di Leone?».
Il suo libro non è solo un saggio: possiamo definirlo un memoir, una specie di diario di bordo della lavorazione del film e dei suoi incontri con il regista?
«Be’, all’epoca ero spesso a Roma, almeno due o tre volte al mese, per il Giornale, e così ne approfittavo per raggiungerlo sul set, oppure al montaggio, dove facevo quattro chiacchiere con lui e lo ascoltavo parlare di cinema, raccontare storie, ridere e ragionare intorno al film, scena per scena, via via che scorreva (e scorreva e scorreva) avanti e indietro sulla moviola. Gli avevo fatto un’intervista, tempo prima, e avevamo simpatizzato. Era inevitabile, del resto. Solo due persone al mondo conoscevamo a memoria i suoi film: una era lui, l’altra ero io. Così il saggio sul suo cinema, una cosa più tradizionale che pensavo di scrivere all’inizio, ha preso una forma un po’ barocca. È diventato la storia del cinema di Leone, un’intervista a tutto campo, il suo ritratto per così dire leonizzato, a suo modo anche un saggio sul suo cinema, e una sorta di divertissement molto personale».
Un suo ricordo personale di Sergio Leone, un aneddoto sconosciuto…
«Un ricordo cinematografico, piuttosto, di cui non mi sembra d’aver parlato nel libro. C’è una scena incredibile nel film. Siamo ai piedi del ponte di Brooklyn e Noodles ragazzino uccide il giovane teppista rivale con una coltellata. Vediamo il coltello sfuggirgli di mano e cadere sulla punta, poi girare sulla punta per qualche secondo come una trottola. Io dissi: «Avete avuto una bella fortuna a filmare questa cosa». Pensavo fosse un effetto casuale, ma Leone fece una smorfia e disse come: «Fortuna? Ci abbiamo lavorato per ore». Erano altri tempi, prima degli effetti speciali, ai quali Leone probabilmente non si sarebbe mai arreso (ma forse sì)».
Perché, a suo avviso, Leone è stato uno dei registi italiani che ha avuto più successo a livello internazionale?
«Perché non era un regista “italiano” ma un regista. A differenza dei nostri registi, compresi i più chiacchierati dalla critica globale, da Federico Fellini a (diciamo, in un’occasione o due) Gillo Pontecorvo e Luchino Visconti, Leone non aveva la limitazione del “particulare”, né la spocchia che era connaturata ai nostri registi: la Resistenza, poi la denuncia sociale, infine la questione morale, oggi il politically correct. Questi film superavano raramente le Alpi. Ma finché in Italia ci sono stati registi e attori in grado di mettere insieme un film capace di divertire qualcuno, c’era almeno un mercato italiano. Spariti i Fellini, i Sordi, i Risi, i Monicelli, i Totò e i Peppino Defilippi, il cinema italiano si è ridotto a campare d’assistenza statale, giustamente micragnosa. Pubblico poco, e spesso addirittura niente pubblico. Sale deserte, film pomposi. Leone aveva indicato al cinema italiano una strada che non ha saputo seguire, la strada d’un cinema per così dire rinascimentale: opere esteticamente curate, ma commerciali, e comprensibili da tutti, come Mozart o una tela di Giovanni Fattori».
Esiste oggi un regista, italiano o straniero, che sia paragonabile a Sergio Leone? Qualcuno dice Tarantino.
«Oggi ci sono registi bravissimi, naturalmente. Ma non ci sono più i registi della generazione di Leone, o di Hitchcok, o di Sam Peckinpah, o di Kubrik, che erano presenti sulla scena – attraverso lo stile inconfondibile delle riprese, i movimenti di macchina, un primo piano degli occhi, il dito che s’avvicina al grilletto della Colt e se ne allontana – dal primo all’ultimissimo minuto del film. Oggi quel genere di regia è obsoleto e ingombrante. Vale anche per i divi: le antiche maschere del cinema, i Fonda e i Bronson, i Lee Van Cleef, gli Eastwood, avevano uno spazio, nei film, che oggi sarebbe eccessivo, e ne rallenterebbe il ritmo. Qualche divo sopravvive, naturalmente, metti Tom Cruise, e così qualche regista per così dire un po’ vintage, per esempio Guy Ritchie con le sue fastidiose stravaganze formali, oppure Quentin Tarantino, che citava lei prima, con i suoi compiacimenti da cinefilo. Ma sono regie sempre un po’ imbarazzanti. Quindi è inevitabile che Sergio Leone non abbia eredi. Non li hanno neanche Melville e Balzac, o Giuseppe Verdi. Oggi un regista epico, per essere fedele alla lezione di Leone, dovrebbe forse dedicarsi a regie sobrie, con attori anonimi».