Che cosa può dire, della scuola italiana, un giovane giornalista che per lavoro passa i pomeriggi in compagnia di bambini dai 6 agli 11 anni? Non dipingerà sicuramente dei sereni quadretti bucolici, a meno che per bucolico non si intenda l’albero di noci del cortile scolastico colpito da un pallone, che diventa oggetto di circolari, mobilita l’attenzione di preside, insegnanti, bidelli, fino a rischiare l’intasamento delle caselle di posta del corpo docente, che di solito di quelle noci si nutre.
Testimone sarcastico e disincantato dello stato di (dis)grazia della scuola italiana, Tancredi Sforzin è laureato in Scienze Politiche e di solito nei suoi scritti si occupa di geopolitica, cultura e mala società italiana. Appartiene alla generazione che più ha il diritto di dire la sua sulla scuola, perché è quella dei ragazzi che, quando dovevano affacciarsi sul mondo del lavoro, c’è mancato poco che non affondassero nel buco nero della ‘magnifica crisi e progressiva’.
La scuola di oggi riesce a dare agli studenti gli strumenti per affrontare le necessità di questo tempo? È ora di riformare radicalmente i suoi programmi? Partendo da cosa?
Prima di ragionare sui programmi, sarebbe auspicabile lavorare su ciò che precede. La scuola di oggi è un baraccone sovietico, pervaso dalla più mesta ideologia burocratica e, se si va a guardare alle responsabilità individuali, dissolte nelle mille figure che popolano la scuola, fondamentalmente anarchico. L’ipertrofia delle responsabilità, associata all’ideologia burocratica, genera una condizione di paralisi, per la quale ogni idea e ogni soluzione innovativa, risultano immediatamente depresse, se non abortite.
Senz’altro, sarebbe intelligente inserire delle “quote blu” nel corpo docente, sin dalla scuola primaria, così da imbrigliare l’attuale assetto ginecocratico, che sembra saper generare solamente persone conformiste e prive di identità, frustrate, depotenziate e orientate solamente a rispetto formale di un protocollo da educande. Persone intimamente fataliste ed incapaci di operare delle scelte, che faranno la fortuna di pusher e centri sociali autogestiti e, in un secondo momento, di psicoterapeuti e counsellor, non appena avranno raggiunta la post adolescenza e la prima età adulta. Potrebbe sembrare una boutade ma in realtà, il problema del maschio, del padre assente, è questione di scottante attualità.
Che cosa cambieresti, che cosa toglieresti, che cosa introdurresti?
Non introdurrei un’ora in più, così da permettere alle famiglie e ad altre agenzie sociali, nei limiti della loro natura, di continuare a portare i loro contributi all’educazione complessiva del soggetto. E’ senz’altro vero che la crisi economica ci ha consegnato un contesto sociale sfaldato ma è altrettanto vero che è più facile che un fanciullo possa maturare la disciplina e la propria creatività frequentando una polisportiva o un gruppo scoutistico che non a scuola. Non parliamo poi delle qualità trasversali e delle attitudini che sorgono nell’associazionismo. Le discipline orientali, quelle artistiche ed artigianali, la musica, la danza, gli stessi gradi da lupetti, è bene che per il momento restino fuori da questa scuola, così da impedire a qualche zelante dirigente scolastico di farne ragù, facendole passare attraverso il tritacarne della burocrazia. C’è una vasta area di attività che meriterebbero di essere inserite d’urgenza nel sistema scolastico ma nelle condizioni cui facevo cenno, finirebbero per essere rigettate dal sistema stesso, un sistema retto da bidelli, elevati oramai ad egregora, a categoria dello spirito. Sarebbe preferibile iniziare con lo sfoltire la burocrazia e svecchiare i quadri con visione prospettica e, al contempo, adottare un approccio maggiormente decisionista.
Come potrebbe una buona scuola favorire l‘inserimento nel mondo del lavoro? D’istinto potremmo rispondere “collaborando maggiormente con i contesti economici locali e favorendo lo studio delle lingue”. Chi però ha oggi trent’anni, ha sufficiente esperienza per notare come la lingua rumena, araba, cinese e russa, siano diventate rapidamente inattuali, rispondendo agli sviluppi repentini della globalizzazione e delle continue delocalizzazioni, nonché ai giri di valzer e alle incoerenze della politica internazionale. Aver intrapreso lo studio di quelle lingue, è stato, molto spesso, un investimento inutile. Vale lo stesso per alcune professioni sanitarie, dall’OSS all’infermiere. Raggiunta l’abilitazione, molte persone si sono trovate costrette ad emigrare in Inghilterra e in Germania per poter praticare quella professione che era stata loro suggerita dai politici e dagli insegnanti deputati all’orientamento. I tempi del mercato sono più rapidi di quelli della politica e anche di quelli della formazione. Questo è un punto che va tenuto presente. Allo stesso modo, va tenuto presente che chi è nel libro paga dello Stato, assunto tramite concorso pubblico, solitamente ha scarsa dimestichezza con il contesto dei curriculum vitae e faticherà ad orientare gli studenti ad operare delle scelte in un mondo, quello del mercato, che sostanzialmente non conosce.
È ancora sensato puntare a una pedagogia di tipo etico-astratto, idealistico, invece che funzionale? Non è un prendersi in giro fingendo vivo un universo di valori assoluti che la storia recente ha ucciso? La formula “serve per aprire la mente” non ha il sapore di un’illusione?
In assoluto, la mente se la apre chi ha voglia di aprirsela, sempre che abbia la fortuna di incontrare un Maestro, nel quale gli insegnamenti “ri-accadano”, costituendo sostanza viva. Spesso, queste figure sono rintracciabili al di fuori della scuola, che mal digerisce questo genere di personalità. La mancanza di queste figure annienta ogni pedagogia, rendendola simile ad una pratica cimiteriale, ad un elegante incedere collettivo di tomba in tomba, come vuole la prassi nel giorno della Commemorazione dei Defunti. Ad ogni modo, trovo persino insensato parlare di “apertura mentale” in Italia, perché l’Italia è lo stesso paese che ha liquidato un istituto glorioso come l’IsIAO, continuando ad essere un paese di Chiese: il corpo docente di ogni ordine e grado ha da tempo assunto le sembianze arcigne dell’intellettuale organico gramsciano, autentico uomo di clero, oggi in fregola di genderismo e meticciato culturale. Lo notiamo nella quotidianità, oggi è considerato “aperto di mente” chi meglio interiorizza i dogmi sradicanti di quel clero, meglio ancora se completando autonomamente il lavoro ciabattando per qualche capitale europea, coinvolto in qualche progetto Erasmus. A mio modo di vedere, è problematico rinunciare ad Omero e a Dante, a Machiavelli e a Marco Polo, cantati dal clero blaterante, per rispondere alle richieste dell’altro clero, quello mercatante, con la sua rogna sarcoptica. Optare, almeno in una certa misura, per una pedagogia funzionale, è un’ipotesi intelligente, ma va tenuto di conto, appunto, il problema della misura. E la misura è un portato culturale squisitamente europeo, cui pare si voglia rinunciare. Il rischio che corriamo è quello di formare oggi, gli emigranti di domani. O un popolo di camerieri, biscazzieri e di lapdancer, di comparse felliniane, per un paese simile alla Cuba di Batista, ad una Gardaland mediterranea, buona per le vacanze pentecostali di altri tubi digerenti europei. Occorrerebbe anche trovare l’umiltà e il coraggio per guardare agli esempi provenienti da paesi realmente in crescita, demografica ed economica. In Iran non ci si fa certo scrupoli ad imporre corsi di arte e letteratura nelle facoltà universitarie tecniche e scientifiche. Allo stesso modo, nella sanità pubblica cinese si affianca la medicina tradizionale a quella occidentale, quella dei “tre veleni e un rimedio”. E’ il coraggio di essere se stessi, rispondendo alle sfide del presente, un coraggio che a noi manca da tempo.
È vero, almeno qualche volta, che “lo stupido istruito ha solo un campo più vasto per praticare la sua stupidità”?
E’ vero sempre e il clero burocratico, insieme all’intera classe dirigente italiana, economica e politica, lo dimostrano con raggelante evidenza.