Se l’intervento di Vladimir Putin in Siria vi fa storcere il naso riflettete su quanto succedeva prima. Da quando – nel 2011 – gli Stati Uniti decidono d’intonare il requiem per Bashar Assad – assieme a Francia, Inghilterra, Arabia Saudita, Qatar e Turchia – la guerra civile cancella 250mila vite, costringe alla fuga all’estero quattro milioni di profughi e crea nove milioni di sfollati interni.
Per non parlare della nascita di quel mostro chiamato Stato Islamico e della distruzione dell’ultimo Paese mediorientale dove il fondamentalismo stentava a metter radici e la convivenza tra sunniti, cristiani e alawiti era principio di stato. A fronte di questo caos, Stati Uniti e alleati si dimostrano incapaci di proporre il nome di un leader in grado di sostituire Assad.
Le varie formazioni ribelli su cui scommettono si macchiano, invece, dei peggiori crimini mentre le antiche comunità cristiane si ritrovano minacciate e perseguitate. Fino a quando l’egemonia della rivolta si concentra nelle mani del Califfato a est e dei qaidisti di Al Nusra sul quadrante occidentale. Ma questo è solo l’antefatto. Il peggio arriva dopo l’estate 2014. Mentre in Irak s’assiste all’ecatombe di Mosul e in Siria rotolano le teste degli ostaggi, gli Stati Uniti mettono a segno una serie di raid aerei così inconcludenti da consentire al Califfato di tagliare in due la Siria e minacciare Damasco. E mentre l’esercito siriano, stremato dagli attacchi dell’Isis, è prossimo al collasso i gruppi jihadisti – foraggiati da Turchia, Arabia Saudita e Qatar, ed ideologicamente indistinguibili dal Califfato – rendono ancor più incerta la sopravvivenza della Siria.In questo contesto da incubo l’intervento di Vladimir Putin non risponde solo alla necessità russa di garantirsi il controllo della base di Tartus, ultima base navale di Mosca nel Mediterraneo o di riconquistare quell’influenza in ambito mediorientale passata in mani americane dopo la caduta dell’Unione Sovietica.
L’iniziativa di Putin offre, a ben guardare, almeno tre opportunità che vanno al dì là degli stretti interessi di bottega di Mosca. Sul fronte della sicurezza internazionale la zampata di Putin previene un massiccio intervento iraniano in difesa di un regime che rappresenta il naturale anello di congiunzione tra la Repubblica Islamica e i suoi alleati di Hezbollah in Libano. Un intervento che scatenerebbe la reazione d’Israele e minaccerebbe veramente d’accendere un conflitto di dimensioni mondiali. Dall’altra parte la discesa in campo della Russia apre la strada, come dimostrano i negoziati in corso a Vienna, alla prima trattativa internazionale in grado di garantire una soluzione politica alla tragedia siriana. Senza contare che, al termine di quella trattativa, solo chi ha salvato Bashar Assad dai suoi nemici potrà permettersi il lusso di imporgli quei «compromessi nel nome del suo paese e del suo popolo» menzionati da Putin prima di lanciare i raid in Siria. La terza e più importante ragione, quelle per cui l’Occidente dovrebbe far ponti d’oro al presidente russo, è la dinamica su scala globale dello scontro con il Califfato.
Mentre l’America di Obama si dimostra sempre più restia ad impegnarsi in un conflitto di largo respiro il Califfato dipana i propri tentacoli su territori che vanno dall’Iraq alla Siria, dal Sinai alla Libia, dalla Nigeria al Sahel. E sembra pronto ad affacciarsi persino su quello scenario afghano messo in liquidazione da America e Nato. Senza contare i fronti interni europei dove Daesh è in grado – come dimostrano gli attentati di Parigi, la situazione di Bruxelles o quella dei Balcani – d’ infiltrare cellule e lupi solitari. Su un fronte così ampio solo l’alleanza con Mosca garantisce, da una parte, il consenso politico necessario per ottenere interventi legittimati dal voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e, dall’altra, la profondità strategica indispensabile per estirpare definitivamente, e su scala mondiale, il contagio dello Stato Islamico. (da il Giornale)