Li invidio quelli che hanno certezze incrollabili su ogni questione. Quelli che hanno sempre la parola (e l’opinione) giusta al momento giusto. Quelli che dopo un minuto hanno già l’articolo o il post pronto. Li invidio perché a me serve tempo per farmi un’idea, per capire gli eventi nella loro compiutezza. Ho bisogno di leggere, di ascoltare, di conoscere. Prendete i fatti di Parigi: tranne rarissime eccezioni, ho ascoltato e letto solo cose scontate, preconfezionate. Da un lato il fallacismo di ritorno di quella destra da bar dello sport (come l’ha definita Pietrangelo Buttafuoco) che, per mettere in discussione le scellerate politiche immigrazioniste, non ha trovato di meglio che lanciare l’allarme sui terroristi che arriverebbero sui barconi che raccogliamo a centinaia nel Mediterraneo. Dall’altro il giustificazionismo di quella sinistra da bar più chic (ma sempre di bar si tratta) che per scagionare da qualsiasi colpe il delirio dell’accoglienza totale ha parlato di “terroristi cresciuti in casa”.
Io, al contrario, credo che chi sale su una carretta del mare per raggiungere l’Europa, nella stragrande maggioranza dei casi, non odi i nostri telefonini, le nostre parabole tv, la nostra musica, il nostro abbigliamento. Tutt’altro. Rischia la vita proprio perché attratto dal nostro modo di vivere, perché vuole chattare sullo smartphone all’ultima moda, indossare jeans con i risvolti, ballare in discoteca, guidare un suv.
È quando si accorgono che questo eldorado non esiste che cominciano i guai. Quando il capitalismo senza volto che ha armato l’esodo presenta il conto e li mette davanti alla scelta se ingrossare l’esercito industriale di riserva degli sfruttati e dei sottopagati o mettersi al servizio della malavita.
Non sono un sociologo, ma credo che sia in questo momento che nascono quelle comunità deluse e rabbiose che meditano la vendetta nei confronti di un continente che non gli ha saputo garantire quel benessere che immaginavano. È in questi ghetti sociali, in queste banlieu del risentimento che il messaggio del terrore attecchisce facilmente. Perché dà un sentimento di tragica appartenenza a chi ha perso la propria identità nella illusoria ricerca di un’altra che non è la sua, nonostante qualcuno gliel’abbia provata ad appiccicare addosso con l’idiozia dello ius soli.
Il paradosso è che chi si ritrova la morte per strada ha spianato la strada al reclutamento dell’esercito e fatto in modo che i generali del terrore avessero anche i soldi per distribuire tritolo e kalashnikov.
Sul banco degli imputati, oggi, insieme all’Isis, dovrebbe sedere anche il giudice: il governo dell’Occidente.