Dinnanzi alla morte non v’è che silenzio. Si tratta di una considerazione talmente ovvia che, nella sua banalità, spaventa. Eppure non può che esservi silenzio e solamente silenzio, un vuoto pieno nel quale risuona la voce di Dio. Siamo in un deserto battuto dal sole e dai venti, serpi e ortiche tra le rovine. E più nulla, dinnanzi a pietre scolpite che non ci parlano più, i fregi sbiaditi dal tempo. Solo la voce di Dio risuona nel deserto.
Abbiamo veduto le immagini di Parigi: le teste di cuoio, la partita che non si è voluta interrompere, gli ostaggi che uscivano con la mani in alto dal Bataclan… un ragazzo ed una ragazza correndo, quasi tenendosi per mano. E poi i corpi, i corpi feriti condotti via dai pompiers, i corpi senza vita, anonimi, sotto quei teli bianchi. Abbiamo immaginato gli spari, le grida, le sirene. A tutti noi si è spenta la voce in gola di fronte a tutto questo. E nel frattempo il numero dei morti cresceva: circa 70, 104, 112, 120… Non so quale sia il bilancio dei feriti, non so quanti i morti. Lo ignoro. Non ho idea di come continuino le indagini, né mi ha interessato il discorso tenuto stamattina dal presidente Hollande, che tuttavia, per una volta, ha dimostrato il carisma degno di un capo di stato. No, è la morte ciò che colpisce e strazia nel profondo. L’Occidente posto innanzi a sé stesso, ai suoi errori, alle sue mancanze. E, dopo aver a lungo esorcizzato la morte, ecco che essa si rivela nel modo più atroce a Parigi, nel cuore dell’Europa.
I terroristi gridavano: Allah akhbar; è bastato questo perché imbonitori di piazza e fogliacci per celebrolesi gridassero, con vile opportunismo, le loro parole d’ordine senza significato: stop accoglienza, stop immigrati, basta moschee. Le grideranno non più al vento, bensì a folle stravolte e istupidite dal terrore che fa seguito al dolore. Ma questo non è guardare in faccia alla realtà, questo è nascondersi, individuare capri espiatori senza voler nemmeno tentare di capire. Non si tratta di assolvere, di perdonare, giustificare. Ma di capire.
Il nemico terrorista
Chi sono questi terroristi? Giovani immigrati delle banlieu francesi, rifiutati dall’Occidente e perciò rancorosi. Sono stati trapiantati in una società che ha tramutato la virtù in valore, valore economico, come scriveva già nel 1959 Carl Schmitt, una società nichilista che corre cieca verso il baratro. V’è chi reagisce atrofizzandosi in discoteca, chi con le droghe. Chi, caduto nelle mani di gente senza scrupoli, si affida a questa perversione di Dio e della religione. Dio ridotto ad antidoto della modernità, ad una droga, ad un ideale per conto del quale amministrare una sanguinaria vendetta. Un Dio asservito ai propri fini. Non si tratta di un ritorno di motivi arcaici, no, tutto ciò è legittimo figlio del suo tempo. E perciò noi occidentali ne siamo i padrini. Siamo andati ad impigliarci in una matassa troppo intricata, troppo complessa. E non v’è rosso filo d’Arianna che possa guidarci fuori dal labirinto che abbiamo edificato.
Ma, al di la’ d’ogni retorica, non tocca solo a noi recitare il mea culpa. E’ una banalità, lo so, ma il mondo sembra impazzito. Ragazzi di strada che uccidono inneggiando ad Allah senza sapere nulla di ciò che è davvero l’Islam, senza aver mai sentito parlare dell’Alhambra, di Granada, dei poeti sufi e di Salah-al-Din, il generoso sovrano della vittoria. Un terrorismo atipico al quale non siamo capaci di fare fronte; quella che dovrebbe essere la “coalizione occidentale” è spaccata tra futili rivalità e conflitti d’interesse, mentre si nasconde sotto le sabbie un intreccio di finanziamenti e mandanti che ricostruire sembra impossibile; una religiosità traviata, che si nutre del Secolo più che del Cielo. Uno scenario di morte e di fuoco. E, dall’altra parte, il Nulla. Il Nulla che inesorabile avanza, inseguito da un’orda di barbari.
Non so che accadrà. Non so come continuerà questa lotta tra ciechi armati di zagaglie. Forse inciamperanno l’uno sull’altro, e l’un l’altro si trafigeranno. Giaceranno su un colle spoglio, ai piedi di una quercia, il sangue fino alle ginocchia. Poi tutto non sarà che polvere, dispersa dai venti. E così, vittime e carnefici insieme, dietro alla morte, falce e clessidra, ed insieme andranno. Gli uomini ballano e cantano a squarciagola su un grande naviglio senza capitano, che scende per la torbida corrente del gran fiume, con un terribile e furente clamore come di ciurma ammutinata. E non sanno dove andranno né da dove provengono, né come si chiama il naviglio che li trasporta né il vento che li sospinge (…) il naviglio continua nella sua folle deriva; le bufere imperversano con forza sempre maggiore e la nave comincia a cigolare e continuano le danze lubriche e i banchetti fastosi, le risate frenetiche e l’insensato clamore fino a quando non giunge un momento solennissimo in cui tutto cessa (…). Le acque hanno sommerso tutto, il silenzio regna sulle acque e l’ira di Dio sulle acque silenziose (Juan Donoso Cortés).