L’ultima assemblea della Fondazione An è stata drammatica. E non è un caso se, per lunghe settimane, sia prima che dopo la riunione non s’è parlato d’altro. Le contrapposizioni, se interne, sanno essere più tenaci. Si sa, del resto, che le faide in famiglia sono quelle più dure. Intanto, però, c’è un mondo da ricostruire. La destra italiana se non è all’anno zero poco ci manca. Le strategie, tra le fazioni, sono diversissime. Fratelli d’Italia se ne va a Bologna e lancia Terra Nostra mentre i quarantenni si staccano dal “contenitore” e vanno a fondare un nuovo soggetto, Azione Nazionale, con l’ambizione di riaggregare la “destra diffusa”. Pasquale Viespoli, già sottosegretario e vicepresidente del Senato, ha il compito di guidarne il comitato dei promotori.
È nata Azione Nazionale, è tornata An?
La questione non si è posta in questi termini. Sono tra quelli che hanno sempre ritenuto che la stagione di Alleanza Nazionale fosse chiusa e conclusa. Altra cosa era ripartire da An. Non c’è alcun ritorno, si tratta di un’iniziativa che guarda al futuro, scenari futuri e contribuire a dibattito idee per costruire la prospettiva di nuovo protagonismo da destra per rendere competitivo tutto il centrodestra – e farlo sui contenuti – come autentica e solida alternativa di governo.
Però quell’assonanza nella sigla…
Posso anche ammettere che ci sia un elemento di provocazione politica ma state sicuri che nessun passo indietro sarà fatto. L’intento di Azione Nazionale è quello di contribuire con umiltà e determinazione a coprire un vuoto, quello della voragine che s’è aperta sul versante destro della politica. E in particolare sul terreno delle idee e della cultura politica.
E quelle presenze sullo sfondo….
Ma chi se ne frega delle persone! A parte che Alemanno e Fini hanno ancora i diritti civili come tanti altri rivendico l’approccio dell’impersonalità attiva. Non è il tempo di spaccarsi sui volti, sulle simpatie, sulle antipatie, sui mantra. Abbiamo, tutti, il dovere di recuperare il senso profondo di una storia che, se non abbiamo il coraggio di prenderci le nostre responsabilità riordinandone i fili, rischia di subire l’immeritata beffa di suonare addirittura fallimentare.
Qualcuno non sembra averla presa benissimo quest’iniziativa.
Con grande chiarezza e senza polemica, ma per dato oggettivo di cronaca. Fratelli d’Italia è nata in maniera funzionale e divisiva. L’assemblea della Fondazione era l’occasione perché Fdi si mostrasse autonoma. Non mi anima nessuna intenzione polemica, ma il dovere di fornire una risposta chiara. Fdi nasce in occasione di elezioni e oggettivamente si trattò operazione funzionale ai piani di Silvio Berlusconi che pensò di utilizzare un veicolo a destra (nuovo) sufficiente ad attrarre consenso elettorale e tale da consentirgli di asfaltare gli esponenti provenienza aennina che non fossero di Fdi o berlusconiani storici.
Cioè?
Andiamo indietro nel tempo. E facciamo una riflessione che parta dal 2013. Fratelli d’Italia nasce funzionale e divisiva contro l’altra destra, per esempio quella di Storace. Nella solita gara verso il basso a chi perde meglio. Alla luce di quanto è accaduto in seguito subito dopo e di quanto sta succedendo adesso l’occasione della Fondazione andava colta perché invece si delineasse una forza autonoma ed inclusiva.
E invece che è successo?
Niente, non è accaduto. È evidente che quel pezzo di diaspora di destra italiana che si era comunque ritrovata, quasi spontaneamente seppure con iniziative in tempi e in luoghi diversi eppure vicini, questa mobilitazione di energia e sinergia andava in qualche modo mantenuta. E non per ricostruire o per l’unico obiettivo della casa comune, non per rifare Alleanza Nazionale in definitiva, ma riparte dalla comune provenienza e affrontare il presente e il futuro. Oggi il problema sta nel dove, nella mancanza sostanziale di un luogo dove andare a far sintesi. E questo è errore politico che si paga e si pagherà anche in termini di lungimiranza della leadership.
Dicevamo del 2013.
Accadde un vero e proprio tsunami. Anzi, a cavallo, prima durante e dopo. Quella tornata elettorale è stata quella che ha visto concretizzati fenomeni politici di grande importanza al punto da indurci tutti a chiedersi se fosse davvero finita la politica così come l’avevamo conosciuta nel Novecento. Nel 2013 l’ormai assodata e sicura crisi di sistema arriva a compimento e travolge il sistema dei partiti, della democrazia rappresentativa. Il risultato elettorale segna l’eclissi del bipolarismo verso il bipartitismo che aveva caratterizzato il 2008 e pone la parola fine sulla simmetria Pd-Pdl. Si chiude la stagione del bipolarismo come l’avevamo conosciuto. Irrompe il terzo polo, che però è quello grillino e non la resurrezione della Balena Bianca vagheggiata da qualche nostalgico. E intanto, prima e dopo quel voto, con i governi del presidente e la rielezione di Napolitano si è rafforzato lo scivolamento verso il presidenzialismo di fatto. Che tale è anche se si guarda come nasce governo Renzi, che nel frattempo s’è costruito un’Opa sul Pd e ha concretizzato la risposta rispetto allo scenario 2013.
Quindi neanche il Pd ne è uscito davvero con le ossa rotte?
Il renzismo è ideologia della rottamazione mixato tra decisionismo e illusionismo, devoto al mito della rapidità e del fare, sempre e comunque, anche a dispetto dei contenuti. Con il culto ossessivo della comunicazione e della mediaticità. La via renziana al Pd è quella che uno come Marco Revelli da sinistra nella sua analisi definisce il populismo di governo, dall’alto. E nonostante ciò, comunque, rappresenta una risposta a quello tsunami così forte, radicale e significativo. Dall’altra parte, a destra, c’è il balbettio. Si incespica anziché costruire la radicalità sul terreno dell’alternativa. C’è troppa ambiguità.
Però a Bologna…
Già vogliamo arrivare a Bologna?!? C’è tanto altro ancora da considerare. Prima di arrivare a Bologna c’è stato il trionfo dell’ambiguità, il Patto del Nazareno. E per via del contributo mediatico, s’è imposto il continuo protagonismo di Salvini che però impatta a sua volta nell’ambiguità perché non costruisce una Lega Nazionale ma preferisce affrontare problemi diventati fenomeni nazionali e cioè immigrazione e criminalità. Il tutto accade dentro uno scenario di grande crisi che chiama in causa il ruolo dell’Europa e che vede la difficoltà del centrodestra schiacciato sulle posizioni del Partito popolare europeo e della Merkel e con invece con Salvini che con grande spregiudicatezza tattica si posiziona a destra, spariglia e diventa l’interlocutore della Le Pen.
Quale è la conclusione della riflessione?
Perchè tutta questa riflessione? Perché sul versante “sinistro” c’è stata, come dicevamo, la risposta renzista. Quel che non c’è, invece, è un pensiero di destra organizzato, e mi riferisco alla destra italiana e alla sua specificità nella consapevolezza della difficoltà di utilizzare questa espressione perché oggi evoca elementi “identitari” forse un po’ confusi, tipo la rivendicazione del Nuovo Centrodestra che, tra i motivi che adduce per giustificare la sua presenza, inserisce quello dell’innalzamento del limite a tremila euro dei contanti. Se fosse vivo Gaber aggiungerebbe una strofa alla sua celeberrima canzone. Il contante è di destra, il bancomat è di sinistra.
Come si cambia, per non morire…
Con una battuta: il richiamo a destra sta cominciando a rappresentare significati che non sono certamente i nostri. E sta di fatto che a destra l’unica risposta, e così arriviamo a Bologna, l’unica che è emersa è quella di Salvini che, attenzione perché molti dimenticano e proprio a proposito di Front National, già governa e lo fa, tra l’altro. con una linea che in termini di alleanze politiche non è quella che esprime. Questo diventa un dettaglio, però è fondamentale: Matteo Salvini già governa. Il problema di raggiungere il governo, almeno la Lega, lo ha già risolto. Governa e continua a farlo in tre grandi regioni italiane, Lombardia, Veneto e Liguria.
Ma Toti è l’alfiere di Forza Italia.
Come se quello della maglietta fosse un problema reale…
E qual è il problema vero del centrodestra, allora?
Bologna lo conferma. E conferma che il centrodestra e lo stesso Berlusconi, nel momento in cui viene meno lo schema del ’94 (e cioè viene meno la presenza forte della destra di An) regge e si tiene quasi esclusivamente sull’asse del Nord che a questo punto diventa l’asse strategico. Il centrodestra cessa, praticamente, di esistere come forza nazionale e, a questo punto, sarebbe più appropriato parlare di asse del Nord, come autentico asse di Governo.
Perché? Che ruolo rivestiva An nello schema del ’94?
La foto di Bologna non è quella del ’94. O almeno, è innegabile notare come la destra si sia rimpicciolita fino a rischiare di scomparire. Vent’anni fa quello schema aveva senso politico e ancor di più geopolitico, grazie alla presenza e all’impegno di una forza come era Alleanza Nazionale, portatrice della cultura nazionale che dava in dote alla Casa delle Libertà un serio radicamento meridionale. Era una sintesi che teneva dentro la visione nazionale, liberale e radicamento territoriale e teneva dentro Nord e Sud. Quella foto, quello scenario non c’è più. Perché Fratelli d’Italia, e lo dico da osservatore se possibile, non riesce ancora a essere quello perché paradossalmente (e questo è il dato) che ha fatto di tutto pur di mantenere il simbolo di An manifesta un’asimmetria tra l’ostinata difesa del simbolo e la linea politica che in sostanza persegue, lontana le mille miglia da quella aennina.
In che senso? Troppo Nord e poco Sud fanno male alla destra?
Solo il simbolo non esprime la politica di An. Risulta evidente che in questo scenario attuale sorge forte l’esigenza di organizzazione del pensiero e della presenza della destra prima ancora che partitica sul piano della cultura politica. Il dovere di offrire un contributo che oggi è indispensabile per dare radicalità – e torniamo al perché è nata Azione Nazionale – all’alternativa di governo e a questo esecutivo Renzi. Potremmo discutere a lungo, possibile che nessuno tiri in ballo le convergenze, ricordo a me stesso che alla fine degli anni ’80 organizzavo con la segreteria di Rauti un’iniziativa nel cuore simbolico della Lega allora nascente a Legnano, e non lo si faceva certo per contrapposizione ma per avviare un percorso di riflessione rispetto a una forza regionalista che iniziava a muovere i primi passi importanti e, di converso, al ruolo che Nord e Sud potevano sviluppare insieme in un ottica di sinergia contro il sistema, come si diceva all’epoca.
Vengo da una città, Benevento, che è gioiello (riconosciuto anche dall’Unesco) della Longobardia meridionale. La nazione è nata prima del Risorgimento, inutile girarci attorno. Non ho pregiudizi di sorta contro la Lega ma, al pari, manco subisco la subalternatità nei confronti di un’idea che non può essere egemone perché io continuo a credere – quando si parla di fronte sovranista – giusto sovranità ma non senza Stato.
Addirittura?
Viviamo in un paese dove lo Stato è stato svuotato di ruolo e significato con la riforma del Titolo V del 2001. Non voglio parlare di statalismo, ma in Italia è innegabile registrare il dato della disunità nazionale. Il Paese è disunito anche perchè si è privato lo Stato, per il tramite della Costituzione, del suo ruolo e lo si è ridotto allo stesso piano di Comuni, Province e Regioni. Siamo un Paese senza Stato. Con la Lega bisognerà misurarsi su questo. E invece ecco che ci ritroviamo con una nuova riforma costituzionale, a proposito di renzismo, che in cambio del superamento dell’attuale bicameralismo perfetto ci fa pagare il prezzo del consolidamento dell’attuale regionalismo.
Lega, però, vuol dire anche territorio. E il concetto di territorio, forse, è stato tra i più abusati probabilmente anche invano negli ultimi anni del centrodestra…
La crisi dei partiti nell’impatto nella dimensione locale pone l’esigenza di individuare le nuove forme della partecipazione politica. Ed è la risposta che passa attraverso il civismo che rappresenta insieme una potenzialità e un rischio, quello del regresso localistico sicché dal basso bisogna contribuire a recuperare un civismo privo di riferimenti per far in modo che sfoci di nuovo verso l’alto. Volendo utilizzare uno slogan semplice ma sbrigativo: la politica deve ripartire dal territorio e risalire e, ancora, bisogna recuperare la città come comunità, se no le liste diventano associazione temporanee d’intenti.
Almeno elettoralmente, la foto di Bologna può essere competitiva?
Non credo sia sufficiente. Il problema non è unità. Quello che fu il Pdl ha perso ha perso sei milioni e mezzo di voti e i dati elettorali ci dicono che man mano si va avanti, ci si incammina verso una sorta di democrazia senza popolo. E a proposito di sovranità, ritengo – citando una parola chiave individuata da Marcello Veneziani nelle ultime pagine del suo ultimo libro – che quella della sovranità popolare sia una grande sfida, che forse viene ancor prima di quella nazionale di cui si parla tanto oggi. Per completare il ragionamento “contabile”, a fronte di milioni di voti che son volati via, non credo che quell’elettorato stia tornando e non mi pare neanche che per indurli a rientrare sia sufficiente sfogliare l’album delle foto di Bologna.
E quindi cosa bisogna fare?
Ripartire dai temi. Che sono almeno due. Prima cosa occorre una nuova offerta politica che va messa in campo e non mi riferisco al banale dato partitico che è solo conseguenza concreta di un processo politico. In seconda battuta, e se è vero che c’è l’esigenza pressante di recuperare un pezzo di quell’elettorato, anziché demonizzare tutto quello che accade, quando emergono nuove iniziative come quella di cui discutiamo. L’approccio, a meno che non prevalga la sterile logica degli interessi del proprio orticello dovrebbe essere quella di applaudire alle iniziative nuove: tutte, infatti, puntano ad aggredire quell’area enorme e attualmente pressoché spopolata che si è ritratta da partecipazione politica e dal voto. Ecco perché credo che iniziative come Azione Nazionale o altre che puntano a riaggregare occupare spazi siano positive.
E chi pensa il contrario?
Non lo so ma chi lo fa di sicuro commette un errore di valutazione politica e mostra una debolezza sul terreno del confronto delle idee. Anche perché quando si assiste a iniziativa tipo Terra Nostra potrei credere che si tratti di un’iniziativa che va guardata con attenzione. Se avessi l’atteggiamento che hanno altri, invece dovrei pensare che se la Meloni fa un iniziativa che si chiama Terra Nostra e ci aggiunge il suo nome, proprio lei che è segretaria di partito di cui è leader, dovrei dire che lei sembra essere la prima a non crede alla capacità espansiva del suo stesso partito. E non mi venissero a parlare di Noi con Salvini, perché in quel caso il ragionamento è diverso. Matteo Salvini è leader di forza regionale che, nella consapevolezza del suo stesso limite strutturale, tenta di allargarsi e diventare nazionale. Ma la Meloni è a capo di un partito nazionale e in questa veste mette il suo nome a un’altra iniziativa, collaterale. Avessi un altro approccio a quello che ho, dovrei per caso immaginare che l’ex vicepresidente della Camera non crede in Fdi? E poi, perché tutta questa disparità di trattamento tra un’iniziativa che va bene se porta il suo nome e un’altra che invece non va seguita, incoraggiata e nemmeno considerata se autonoma e costruita da altri?
A destra il clima è più teso di quello un derby.
Si può chiedere di rispettarci tutti di più e di confrontarci e, se proprio necessario, competere sulle questioni, sui temi, sui contenuti? Abbiamo – tutti – vissuto certe stagioni, la stessa Meloni è stata ministro, vicepresidente della Camera dei Deputati e, se non ricordo male, allora non si celebrarono primarie né altre procedure concorsuali. Tutti abbiamo vissuto quella stagione, tutti abbiamo responsabilità tanto in quel che è accaduto e forse ancor di più in ciò che non accaduto, forse perché è dipeso dai limiti delle persone, io primo tra tutti, per carità. Al di là delle collocazioni, però, tutti dovremmo sentire come quelle responsabilità ci inducano al dovere di recuperare il senso autentico della storia della destra italiana, da consegnare e da trasmettere, per evitare che quella storia finisca per apparire fallimentare.