L’espressione di un’avversità nei confronti di format popolari equivale ai giorni nostri ad una bestemmia in chiesa o, al più, viene relegata nell’egocentrismo frustrato, in quel fenomeno non immune dalla sindrome del bastian contrario, riferito a qualcuno portato a cantare fuori dal coro. Da Slow Food a Vinitaly, dalla Maker Fair con le stampanti 3D, passando per il Festival Letteratura di Mantova e a quello della filosofia di Modena – consapevoli dell’abisso azzardando l’eterogeneo accostamento – l’atteggiamento supino e acritico generalizzato resta il medesimo, essenzialmente basato sulla superficialità della fruizione di massa. Già i numeri indurrebbero a desistere, gente chiama gente e sarebbe da irresponsabili sminuire l’indotto positivo di queste manifestazioni: turismo e commercio, con bar, negozi, ristoranti ed alberghi pronti ad accendere ceri votivi all’ingresso. Tenteremo comunque la via dell’irresponsabilità, proponendo un ragionamento che parte da un distinguo volutamente retorico: è possibile mettere sullo stesso piano la promozione di una mortadella con quella del pensiero e della letteratura? “Che faccio, lascio?” Come se in libreria adottassero la bilancia, libro più, libro meno. La certezza che l’italiano medio preferisca la prima, neo puritani vegan a parte, ci condurrà nel bosco fatato delle ipocrisie festivaliere.
Dal punto di vista commerciale non vi sarebbero dubbi a riguardo, in fondo il libro è un oggetto in vendita ed i librai somigliano parecchio, nell’atteggiamento piagnucoloso ed apocalittico, ai contadini. Sempre pronti a lagnarsi di fattori contingenti, sempre a recriminare per l’avvenire incerto, quando al giorno d’oggi nemmeno i dipendenti delle poste sembrano più tanto comodi sulla sedia da stipendiati. Qualcuno ricorderà come fatto premonitore le campagne di sensibilizzazione alla lettura – modello salva panda – promosse da programmi televisivi come il Maurizio Costanzo Show (citare questo caso obsoleto, in mancanza di riferimenti più recenti, testimonia che lo scrivente si liberò per tempo dal nefasto elettrodomestico parlante); la scatola animata fu uno dei principali fattori di rincoglionimento su vasta scala, allontanando progressivamente il pubblico dal libro in favore del telecomando. Poi arrivò Facebook, con il copia-incolla di dotte citazioni decontestualizzate, estratte chirurgicamente da Wikipedia al solo scopo di darsi un tono. Slogan come “spegni la tv, accendi un libro”, intrisi di virtuosismo pedagogico, andavano a farsi eco nel vuoto, principalmente perché leggere è faticoso, molto più di cazzeggiare soavemente tra ipotesi d’aforisma: Oscar Wilde, Fabio Volo, Jim Morrison o Arthur Schopenhauer poco importa, purché s’accomodi bene in bacheca accanto alla foto del gatto.
Date queste premesse – corroborate da dati che delineano una sorta di analfabetismo di ritorno – come spiegare, ad esempio, il (quasi) ventennale successo di una manifestazione come il festival della letteratura di Mantova? Il piccolo capoluogo lombardo, lungi dal rappresentare un’enclave di dotti, s’è adagiato meglio di altri sul lettino comodo di una beauty farm molto particolare, l’onirico reame dei sapienti militanti, ove alla realtà viene preferito il bon ton stucchevole dell’agiografia ed il belletto effimero della parvenza ingannatrice. E dunque ecco i rosati volti delle “magliette blu”, gli scouts del volontariato culturale che tanto piacciono alle nonne; ecco Beppe Severgnini, Bruno Gambarotta e Lella Costa girovagare inutilmente (in sella ad una bicicletta, l’ecologia lo impone) per le vie del centro, pronti a far parodia promozionale di loro stessi; ecco la cartolina “smart & sharing”, acquerellata in favore di turista, infarcita da tutte quelle stronzate scimmiottate dall’estero, tipo cabine telefoniche o cassonetti della spazzatura, trasformati nottetempo da illuminati gnomi filantropi in librerie bonsai. Esisteranno veramente questi paradisi di edulcorata condivisione? Scapperà un rutto anche da quelle parti? Giusto per liberarsi, prima della beatificazione a cittadino modello. Come sosteneva il filosofo campestre Roberto Boni, l’auspicio è sempre quello di riuscire a dimettersi da cittadino.
Più o meno siamo dalle parti di Fantasilandia, ipnagogico non luogo dove il libro si trasforma da mezzo formativo in gingillo per apprendisti arredatori. Un libro a prescindere, un libro comunque (perché leggere fa bene come bere molta acqua e fare giardinaggio, sempre a patto di non trovare sotto una zolla il Mein Kampf) poco importa se scritto all’interno – e chi cazzo lo legge? – basta l’involucro, il dorsetto da esibire agli aperitivi, per un selfie con Corrado Augias o per due ore di sonno, in prostrata catalessi, quando toccherà a Camilleri celebrare la messa laica per gli ossequiosi adepti (ehi, sveglia!). Perché poi c’è pure questo aspetto perverso, ovvero l’intento onanista che accomoda la faccenda festivaliera in un reality per l’ego degli scribi. Come i cuochi altre celebrità da mantenere sotto i riflettori, altri misteri da svelare: non sarebbe sufficiente leggere, evitando di scoprire anzitempo i retroscena tecnici di un impianto narrativo? Perché saperne di più sul “personaggio” scrittore quando sfogliare la pagina sembra essere diventato un gesto degno di studi antropologici? Interessa davvero a qualcuno sapere qual è il piatto preferito di Amos Oz o dove va in vacanza Margaret Mazzantini? Qualcuno oserebbe immaginare Céline sul palco di un festival, con microfono in mano, intento a divulgare i segreti della petite musique ad un pubblico di pensionati annoiati? Un po’ come accade presso i megastore Feltrinelli, il libro si fa atmosfera masturbatoria: sotto le gigantografie in bianco e nero di Hemingway, Proust, Sartre e Dickens non escluderemmo di trovare una confezione di assorbenti, perfettamente mimetizzata nella gadgetistica pseudo culturale. Qualsiasi cosa pur di non dover leggere, inforcando però gli occhiali con sussiegoso rispetto.