L’uomo non è solo tecnologia e programmazione. Ma anche quello che intravede in una vetrina quando ci passa davanti per caso. E’ la differenza tra il fotografo e il pittore: una foto mostra la realtà, un disegno racconta la realtà, senza la pretesa di svelare tutto, come invece fa la fotografia. E’ come se il disegno dicesse: “No, non capisco e non voglio dire tutto. Dirò quello che vedo io”. Così il mondo di DeLillo raccontato in Cosmopolis.
Attraverso la complicatissima e concretissima vita di un miliardario, l’autore statunitense ci manda il messaggio opposto. Non contano le tecnologie, la perfezione. La vita è anche l’immagine che vediamo di noi su una vetrina mentre passiamo.
“Non aveva un amico tanto intimo da sopportare il tormento di una telefonata. Cosa dirgli? Era una questione di silenzi, non di parole”.
Il protagonista è inghiottito in un mondo tutto suo, fatto di analisi di mercato, di azioni, di quotazioni, di yen e di dollari. Il tutto da controllare spasmodicamente dall’interno della sua limousine. Mentre fuori succede di tutto. Per le strade la gente protesta e si uccide per un mondo che non va. Visionaria anche questa immagine: lui controlla tutto dall’interno della sua auto blindata, fuori invece si scatena il caos tra la povera gente. Un quadro moderno, no?
Mentre attraversa la città per andarsi a tagliare i capelli, il protagonista piomba in un turbine di pensieri e situazioni, cucite perfettamente sulla società contemporanea. Anzi, il messaggio visionario qui è quasi premonitore, perché va oltre la contemporaneità. Guarda oltre. Agli anni che verranno.
“Tante cose ormai andate, ecco chi era, il gusto perduto del latte succhiato dal seno materno, la roba che espelle quando starnutisce, questo è lui, e il modo in cui una persona si trasforma nel riflesso che vede passando accanto a una vetrina polverosa”.
Don DeLillo è secondo nella classifica di Visio sugli scrittori più visionari di sempre dopo le analisi di L’uomo che cade e Cosmopolis.