I lettori di Barbadillo.it conoscono bene Marco Ciriello, tra i più brillanti scrittori italiani, nonché intellettuale libero al tempo del conformismo liquido. Ora l’autore campano torna in libreria con “Il più maldestro dei tiri” (edito da Ad Est dell’Equatore). Ecco una recensione dell’imperdibile volume ***
Chi crede che il calcio non sia soltanto un gioco, quelli che al di là delle prassi della politica riescono a scorgere l’evoluzione di visioni e costumi di una civiltà, i lettori che in un libro – come nell’articolo di un quotidiano – cercano coinvolgimento, rievocazioni, lingua non potranno che amare Il più maldestro dei tirie imprecare perché finisca così presto il breve (90 pagine) ma intenso volumetto di Marco Ciriello in uscita in questi giorni per i tipi di Ad Est dell’Equatore. Già dal titolo è ben chiaro l’asse su cui l’estroso giornalista – collaboratore de Il Mattino – si muove, per una ricostruzione davvero singolare della storia d’Italia degli ultimi cinquant’anni, sospesa tra le punizioni “a foglia morta” di Mariolino Corso e quelle “maledette” di Andrea Pirlo, dal Paese di Aldo Moro a quello di Silvio Berlusconi.
Già perché con quel titolo il richiamo è netto a “Il più mancino dei tiri” vergato da quella penna inimitabile che fu Edmondo Berselli. Così come per capacità espressive è netto il collegamento con quella classe di giornalisti e di scrittori (da Ennio Flaiano ad Alberto Savinio) che armata di doti letterarie, di visione morale, di leggerezza e di grande ironia ha traghettato l’Italia dal dopoguerra al terzo millennio, descrivendone vizi e virtù. Nel segno d’una cronaca che si fa storia, e che solo le grandi penne hanno. Non a caso Ciriello mette proprio Berselli – come solida roccia alla Gigi Buffon e alla Dino Zoff – alla base del visionario 4-3-3 con cui scende in campo e gioca a sbaragliare il lettore. Prima con la linea invalicabile della difesa (non solo della porta, ma anche della lingua) dove Enzo Jannacci e Beppe Viola affiancano gli insormontabili Agostino Di Bartolomei e Gaetano Scirea.
Pirlo diventa «l’ultimo italiano maestro di punizioni… che passeggiando e accelerando improvvisamente porta quello che nella politica non c’è più: lo stupore». E con lui «sopra i campi e le teste c’è Silvio Berlusconi, presidente del Milan e del Consiglio, portatore a sua volta di stupore e credenze, di promesse e di vittorie». Così l’ala sinistra dell’Olanda di Johan Cruijff, Rob Resenbrinck, passa per filosofo, ma meno fortunato di Bauman, quando descrive la parabola d’un calcio portato a gioco estremo. Perché Berlusconi sta alla politica come l’Olanda sta al pallone, «la sua discesa in campo è accelerazione del processo di occidentalizzazione dell’Italia, col suo pressing alto sull’elettorato». Mentre Benedetto Croce, sì, c’è anche lui, viene ricordato «a lungo allenatore e padre calcistico del Napoli». E Jannacci è soltanto il medico sociale del Milan. Intanto il centro avanza. Come nel lancio che da Pirlo arriva a Roberto Baggio – quando i due, ancora giovincelli, militavano nel Brescia – e non intervengono gli esterni, non ci sono ali, è la linea verticale che si fa gol archetipo, «quasi a dar ragione a Rainer Maria Rilke o forse a Roberto Calasso, e il futuro entra in noi molto prima cha accada». Calcio e politica si tengono per mano. Entambi hanno vissuto le loro tangentopoli. E la Juventus somiglia tanto alla Dc, prima in orbita e poi in serie B. Con Gianluca Pessotto che fa Raoul Gardini, solo che alla fine viene salvato da San Giuseppe da Copertino. Inevitabile la conclusione, velata di malinconia: «Questo libro si poteva scrivere solo adesso che Pirlo ha preso casa a New York e ha lanciato il campionato italiano e Berlusconi è nella fase Buffalo Bill: lucida la sua statua, senza più l’aiuto di Verdini e con l’innesto del tailandese Mr Bee». (da Il Messaggero)