Simone Caltabellota è uno scrittore e poeta romano, già direttore editoriale della Fazi e collaboratore della rivista Nuovi Argomenti. Fondatore della Lain, ha recentemente creato la label musicale Sleeping Star. Romanziere attento alle intersezioni tra storia e sovrastoria, tempo ed eternità, ha scritto diversi romanzi. Tra essi ricordiamo: Il giardino elettrico (Milano 2010), Sa Reina (Milano, 2013). Da poco nelle librerie, per la casa editrice Ponte alle Grazie, è la sua ultima fatica, Un amore degli anni Venti. Storia erotica e magica di Sibilla Aleramo e Giulio Parise. Le sue pagine, animate da capacità affabulatoria di rilievo, fanno rivivere il milieu intellettuale ed esoterico della Roma degli anni Venti e Trenta. L’amore dei due protagonisti è l’occasione per attraversare un ambiente di cui poco si conosce e per presentare le figure di maggior rilievo intellettuale che lo caratterizzarono. Innanzitutto quella di Julius Evola, amante dell’Aleramo e amico di Parise, ma anche quelle di Reghini, Colonna di Cesarò, Livia Picardi e molti altri, oltre alla storia contrastata del magico “Gruppo di Ur”, che ebbe l’ambizione di condizionare magicamente il fascismo. Caltabellota ci ha concesso, per i lettori de “il Borghese”, l’intervista che segue sul suo romanzo. Lo ringraziamo per la cortesia.
Leggendo il suo libro si percepisce una certa empatia verso i protagonisti, soprattutto nei confronti di Parise, e più in generale verso gli ambienti intellettuali che frequentavano. Quali ragioni o, come Lei le definisce, “connessioni invisibili”, l’hanno indotta ad occuparsi di Giulio Parise e del milieu esoterico romano degli anni Venti?
A Giulio Parise, al Gruppo di Ur e più in generale alla Roma magica degli anni Venti, della cui esistenza sapevo solo qualcosa, mi hanno portato le pagine di quella che è una delle opere più belle e meno conosciute di Sibilla Aleramo, il romanzo Amo dunque sono, pubblicato dalla scrittrice nel 1927 e centrato sulla liaison con due giovani e affascinanti “maghi”, Parise ed Evola (che all’epoca si faceva chiamare Jules e non Julius).
Il romanzo di Sibilla è una vera e propria opera a chiave, anche se fino ad oggi non è stato realmente preso in considerazione, tanto dagli studiosi di letteratura italiana (probabilmente perché oggetto troppo “strano” e troppo poco letterario rispetto alla materia trattata), quanto dagli studiosi di esoterismo e dagli specialisti di Evola – immagino perché considerato opera sentimentale e di finzione. In realtà, e non è difficile rendersene conto, di finzione nel libro ce n’è ben poca: Amo dunque sono invece, al di là del coinvolgimento emotivo che vi traspare, è un ritratto straordinario “in diretta” dell’esoterismo romano del tempo.
Anche per questo, come dicevo, ha prodotto in me una risonanza (non saprei come altro chiamarla), che poi è cresciuta negli anni e mi ha portato a ricercarne, per quanto possibile, origine e protagonisti.
Qual era il clima spirituale della Roma di quei tempi e che atmosfera si respirava tra i neo pitagorici reghiniani, i teosofi di Via Gregoriana, gli antroposofi e gli “imperialisti pagani” come Evola?
Credo che per temperie culturale e spirituale, per ampiezza di interessi e apertura intellettuale, quegli anni siano stati uno dei periodi più ricchi della storia del Novecento italiano.
Le arti, la scienza, la filosofia e gli studi religiosi dialogavano in modo continuo e fecondo; qualcosa che non si sarebbe più ripetuto in seguito, e che purtroppo oggi è davvero quasi inimmaginabile.
Passiamo all’amore tra Evola e l’Aleramo, di cui la scrittrice ha lasciato memoria nel suo Amo, dunque sono. Si tratta di una relazione riconducibile alla dimensione della “sottomissione della donna al maschio”, come ebbe a rilevare Sibilla, oppure in questo libro autobiografico è necessario, come notò Pancrazi sul Corriere, capire “dove la sincerità finisce e dove comincia lo specchio”?
Amo dunque sono è a mio avviso un’opera di grande modernità, e in quanto tale sfugge a una definizione univoca. Romanzo autobiografico e a chiave, diario sotto forma di epistolario, confessione erotica e spirituale, fotografia di un’epoca durante il suo svolgersi, racconto filosofico e iniziatico, dichiarazione e rivendicazione d’amore… è tutto questo e forse anche altro.
Sibilla piuttosto evocò l’amore, o meglio l’inizio dell’amore, con Evola in un altro testo, la prosa lirica “Trapezio”, che precede di alcuni mesi la composizione di Amo dunque sono.
L’amore tra Parise e l’Aleramo fu intenso ma, in qualche modo, “rinviato” e contrastato dalle pratiche magiche dello studioso. L’obiettivo era quello di giungere all’ “annullamento di sé in una dimensione misteriosa”. La cosa è confermata dalle due raccolte di scritti, intitolati “Prova I” e “Prova II”, da Lei rintracciati nell’Archivio Aleramo custodito presso la Fondazione Gramsci di Roma. Può dirci in merito qualcosa in più.
La relazione amorosa tra Sibilla e Giulio, cominciata nella primavera del 1926 e destinata a durare almeno fino al 1929, quasi subito inizia a diventare “altro”, qualcosa in cui l’elemento di attrazione reciproca, soprattutto da parte di Parise, lascia progressivamente il posto alla volontà di spostare il rapporto su un piano ulteriore, più prettamente spirituale.
Le due “Prove”, diari del tentativo di uscire dal corpo e raggiungere in spirito l’amato, ne sono in questo senso una straordinaria testimonianza, sollecitata dallo stesso Giulio quale forma di prima iniziazione.
A suo parere in che senso gli amori dell’Aleramo, prima per Evola e poi per Parise, possono aver influito sulla rottura del “Gruppo di Ur”? Grazie.
E’ difficile dirlo. Certamente il rapporto con Sibilla costituì per entrambi (dapprima amici e rivali, quindi nemici giurati) un ulteriore motivo di rivalità e dissidio oltre quello, via via crescente, di carattere più propriamente dottrinale all’interno della breve, confusa ma intensa stagione dell’esoterismo romano tra imperialismo pagano, pitagorismo, fascismo e massoneria.