Quando Woody Allen tornerà a New York per girare l’ultimo dei suoi film e dovrà aggiornare l’elenco di cose per le quali vale la pena vivere, aggiungerà – magari subito dopo Joe DiMaggio – vedere due italiane sfidarsi agli Us Open, battersi e urlare con una racchetta in mano. Alla fine ha vinto Flavia Pennetta su Roberta Vinci, in due set con il punteggio di 7-6 e 6-2. Separato da una rete, c’era un sogno comune alla loro generazione: uscire dalla curva della provincia e salire in cima, sulla vetta del tennis. Ora che ci sono riuscite, che hanno portato la loro infanzia a New York – che è l’indirizzo di buona parte dei sogni – fanno fatica a crederci. E prima non è che fossero così convinte. Roberta Vinci alla vigilia della semifinale con Serena Williams, giovedì scorso, aveva già prenotato il volo di ritorno, per questo ha giocato come i rivoluzionari fanno all’amore: senza un domani, ed ha vinto. Giocando e vincendo due demivolée – come apparecchiare colore a poker due volte di seguito –. Flavia Pennetta, invece, è una specialista del dolore sotto rete, del rovescio in extremis: si è già rimessa da un cuore spaccato e da un polso operato, ma non ancora dalla sorpresa di essere dominatrice, poi di Simona Halep, tanto che quando il suo fisioterapista le ha chiesto se pensava di arrivare alla finale di uno Slam, lei senza guardare né pensarci su ha detto: No. Due tenniste postmoderne che sarebbero piaciute a David Foster Wallace, che hanno saputo buttarsi alle spalle l’Italia delle faziosità tribali – la stessa che oggi le reclama, tira e ammira –, che praticano un tennis mentale, tattico, ed hanno una estetica da attrici, ma in fondo all’anima sono rimaste le due bambine di una vecchia foto di tanti anni fa che le ritrae vincitrici in doppio nel torneo dell’Avvenire. Hanno portato sui campi newyorkesi anni di passaggi tennistici italiani andati a vuoto, invertendo i risultati e, ora, con la grazia dei loro gesti: piantano radici. Le loro partite sono state quasi delle derive pazzesche d’irrealtà, ma la precisione di colpi e punti sono una fuga in avanti per l’intero sport italiano, costretto a metabolizzare due grandi vittorie, una finale dispari, dopo lunghissime conte d’errori. È la prima volta in cui le due finaliste di uno Slam sono fuori dalla Top 20, e questo dato racconta l’impresa. La Pennetta è numero 26 della classifica Wta e la Vinci numero 43, molto lontane dalla distanza d’offesa rispetto alla prima e alla seconda della classifica, nessuno ci pensava al capovolgimento. Le due ragazze si sfidarono nel 2013 ai quarti dello Us Open e vinse la Pennetta che poi si fermò in semifinale e al ritorno invitò la Vinci a mare, quasi per scusarsi della sua vittoria. È una vita che sono incollate una all’altra, prima Brindisi e Taranto – le loro città, unite dall’Appia – poi gli anni: Flavia è del 1982, Roberta del 1983, entrambe di Febbraio, però; una quasi bionda e l’altra mora, una se ne è andata in Spagna per farsi allenare da Salvador Navarro, l’altra è andata a Palermo per Francesco Cinà, si bordeggiano nell’altezza e nei chilogrammi, una si è legata in coppia nella vita con il tennista caravaggésco Fognini, l’altra in coppia di campo con Sara Errani (25 tornei vinti) e aveva dato il meglio fino ad ora. Entrambe sono arrivate al tennis per via di un uomo, Flavia con il padre Oronzo – niente a che vedere con il tirannico genitore di Agassi – che la portava al circolo tennistico brindisino, e Roberta cercando di imitare il fratello Francesco a Taranto. Dagli undici anni in poi marchiano i campi di tennis pugliesi con i loro colpi, scrivono i loro nomi sulle coppe e le targhe, poi finivano sempre una contro l’altra e gioca oggi, gioca pure domani si sono scambiate i numeri di telefono, hanno preso a parlarsi e poi a dormire insieme durante gli stage e le convocazioni con la nazionale juniores, creando una complicità che diventa pubblica quando vincono nel 1998 il Roland Garros junior. Il loro è un tennis quasi simile, fatto di gesti sedimentati, di atteggiamenti diversi, però, e inclinazioni e preferenze differenti: la Vinci sembra fatta apposta per i doppi, mentre la Pennetta tende ad istituzionalizzare l’individualismo e infatti corre in avanti, entra nelle prime 50 a 22 anni e poi si riversa sulle copertine dei rotocalchi per la storia d’amore con Carlos Moya. È il momento di massimo distacco, Roberta fa la gregaria e Flavia si gode la dolce metà di una favola. Sfumature psicologiche e biografiche nell’esercizio tennistico. Ma entrambe hanno un programma da perseguire nel tempo, si perdono e ritrovano, nel blocco di tenniste italiane che cresce di forza e titoli, mentre la declinazione maschile delude a nastro. Un effetto perverso che le vede cercare in modi lontani lo stesso obiettivo, una in coppia con la Errani e l’altra da sola, in campo come nella vita, avendo perso il Moya tra un set e l’altro. Dissolve la separazione in assoli tennistici che la portano ad essere la prima italiana ad entrare nella Top10 e poi a vincere gli Australian Open in coppia con l’argentina Gisela Dulko. Questo mentre la Vinci diventa la prima e unica tennista italiana a vincere un torneo di singolare su ogni superficie. Sono un incastro, con consapevolezza o meno si stringono e lasciano di continuo, alternandosi in singolo e doppio alla ricerca di una vittoria, cercando una dimensione valorizzante. La Pennetta torna alla solitudine del campo, mentre la Vinci stringe con la Errani un legame fortissimo che poi la porterà allo smarrimento quando decideranno di provarsi singolarmente. La loro sembra una equazione fra vita e tennis, senza mai uno scivolamento melodrammatico, perché il tennis è l’unico sport dove l’Italia è postmoderna. Si ritrovano per qualche istante, ricompongono la foto che erano e poi zac tornano a separarsi. Flavia entra nella dimensione dolorosa dei suoi polsi consunti, e tempo dopo Roberta risponde con un ginocchio dolorante. Una pensa di smettere, l’altra ha bisogno di riscrivere il suo spazio a ridosso della rete. Entrambe scavano nella solitudine dello sport che le ha traghettate dai dieci ai trenta anni, tra note basse e interviste rauche, vittorie, record, esaltazioni e copertine, pianti voluttuosi e voli da una parte all’altra degli oceani, tutto assimilato e spedito dall’altra parte del campo. Poi arriva New York a conferma di una regola dello sport che dice: ci si stupisce soltanto se si prova ancora stupore. E le due ragazze di Puglia, si ritrovano in una solidarietà sportiva e narrativa, senza apparente via di scampo, prima ad affrontare le teste del tennis mondiale e poi ad affrontarsi, in una dimensione che diventa mitica per la povertà di titoli italiani nella storia del tennis. Insieme sono sopravvissute al naufragio che le sconfitte provocano, insieme si trovano a sopraffarsi per poter accedere al sogno che aveva lo stesso indirizzo per entrambe quando tutto cominciava circa venti anni fa. Insieme sono cresciute, hanno imparato ad approfondire le sfumature di ogni palla respinta, insieme sono si sono fiondate nell’immaginazione di chi segue il tennis. È pieno romanzo. Evento sportivo che diverrà titolo permanente nell’astratto e purificato muro dei ricordi. Per un paradosso darwinista nessuno delle due risalirà in cima alla mensola dello Us Open – sono le più anziane di sempre a disputare una finale –, nessuno delle due raggiungerà, molto probabilmente, il registro di giocate che hanno mostrato in questo Slam, e questa è anche la fine della loro storia di avvicendamenti e sostituzioni, del loro ruotare continuo alla ricerca di un titolo permanente che ne distilli la biografica sportiva, che separi le due ragazze pugliesi dalla loro storia comune. La vittoria della Pennetta è il dolore della Vinci, rimasta senza fiato per i colpi mancati, con la vita delle due che si trasforma in un lunghissimo immobile istante lungo una partita, che poi finirà nell’elenco di Woody Allen o anche solo nostro, delle cose per le quali valeva la pena vivere: tra un DiMaggio e un Marlon Brando. (da il Mattino)