«La mia famiglia è in Montenegro dal 1580, ma siamo originari di Salò. Quattro fratelli vennero ad aprire le prime farmacie quando qui c’era la Serenissima Repubblica di San Marco, in fondo restavano a casa… La prima licenza la ottenne Giacomo Antonioli nel 1621, l’ultima mia mamma: in mezzo 500 anni di antenati farmacisti, speziali e chirurghi, tutti laureati a Padova…». Siamo a Cattaro (Kotor), la perla dei Balcani, eppure ascoltare Dalibor Antonioli, 70 anni, avvocato montenegrino, ha il sapore di una chiacchierata con un «italiano vero», come cantava Toto Cutugno anni fa, e in fondo non stupisce più di tanto che nella
konoba ‘Portùn’ intanto i commensali in una nuvola di fumo (ancora non è vietato) cantino proprio Cutugno, Nicola Di Bari, Claudio Villa…
Montenegro, Bocche di Cattaro, spettacolare fiordo nell’Adriatico orientale. Un serpente di mare blu intenso che si incunea fino all’omonima città, ‘patrimonio dell’umanità’ protetta dall’Unesco, e lì si allarga come un lago di montagna. Il nero delle rocce incombe a picco sulle case venete. Qui si scrive in cirillico e si parla in slavo, ma Venezia scorre ancora nelle vene dei bocchesi e l’Italia occupa un posto privilegiato, nei loro cuori come nella parlata locale. A Cattaro da undici anni ha sede una Comunità degli Italiani del Montenegro
con ben seicento iscritti, in buona parte giovani, gente che qui si è fatta valere e ricopre importanti ruoli sociali. Oggi è il giorno del loro congresso annuale, un evento sentito, cui partecipano le autorità montenegrine e l’ambasciatore d’Italia Vincenzo Del Monaco, ma anche i rappresentanti della Regione Friuli Venezia Giulia e dell’Università Popolare di Trieste, l’ente che dalla Farnesina ha il mandato di tutelare e far crescere l’italianità dei ‘nostri’ montenegrini. «Circa 300 sono italiani ‘di origine’, come me – spiega Aleksandar Dender, architetto, attuale presidente della Comunità –, altri 120 hanno proprio il passaporto italiano, i rimanenti sono ‘italiani d’elezione’, amano la cultura e hanno assorbito l’italianità che qui non si è mai dissolta». Dopo 400 anni di Venezia, persino sotto l’impero austroungarico la lingua ufficiale era quella italiana, usata nei documenti e nella marineria. «Oggi lo stretto rapporto con l’Università Popolare di Trieste e con l’associazione ‘Veneziani nel mondo’ ci permette di tenere vive le nostre radici e conservare un patrimonio inestimabile di storia e di arte». Il fatto che l’ultima regina d’Italia, Elena, morta nel 1952, fosse figlia del re del Montenegro, è solo un ulteriore sigillo a secoli di destini condivisi.
«QuiVenezia restò dal 1420 al 1797 – riprende Dalibor Antonioli – poi arrivò l’Austria fino al 1805, poi i russi per 16 mesi, nel 1807 i soldati di Napoleone, che bruciò tutto e ci costrinse alla fuga. Nel 1814 tornò l’Austria per un secolo, fino alla fine della prima guerra mondiale, con le guerre contro i turchi e l’arrivo dei serbi… Nel 1941 fu la volta dell’Italia». In nessun posto come nella regione di Cattaro la parola razzismo è priva di senso: nessuno è di ‘sangue puro’ e questo fa la ricchezza di un popolo culturalmente vivace. «Noi chi siamo? Mah, posso dirle che mio padre, Casimiro Antonioli, si dichiarava dalmata-veneto. Le nostre radici sono intrecciate con Venezia, Padova, Trieste, Zara, Curzola, ma anche con tutto il mosaico multietnico dei popoli che si sono succeduti sulla nostra terra. Oggi ho tre figli e sei nipotini, e ancora nel nostro petto batte un cuore veneto. Quando sono nato, nel 1945, l’Italia non c’era già più da due anni…».
Netti invece i ricordi dell’Italia per Jovan Martinovic, 80 anni, noto archeologo, anche lui al congresso della Comunità. «Io ho frequentato la prima elementare italiana, semplicemente perché qui dal 1941 fino all’8 settembre del 1943 era proprio Italia», racconta. Ma guai a parlargli di ‘occupazione’: «Le Bocche di Cattaro e la zona circostante erano annesse – puntualizza –, erano una vera provincia d’Italia con tutti i diritti degli altri cittadini, i programmi scolastici erano quelli di Roma e il mio sussidiario ‘Prime letture’ cominciava con ‘La mia patria è l’Italia’», dice con orgoglio. Nessun rancore, nonostante a 7 anni dovesse vestire i panni del ‘Balilla’ e cantare ‘Giovinezza’. «L’Italia non pretese dai nostri uomini il servizio militare, quindi qui non si sentì la guerra, sono stati mesi sereni. Inoltre i soldati ci davano buon cibo, pasta, carne di cavallo… Ben diversi furono i tedeschi, entrati dopo l’8 settembre quando l’Italia capitolò». Poi, nel ’45, l’arrivo del maresciallo Tito «e io da ‘Balilla’ fascista diventai ‘Pioniere’ comunista, ovvero… non cambiava niente», ride. E guai anche a parlargli male di Tito: «In quei tempi feci il ginnasio a Cattaro, la laurea in archeologia a Zagabria, il master a Belgrado», e nel 1979, l’anno di un terremoto disastroso, Tito ordinò di fare ricerche archeologiche sugli edifici lesionati di Cattaro, soprattutto le tante chiese romaniche del XII-XIII secolo. «Così ho scoperto sotto la cattedrale di San Trifone il sarcofago e le ossa del santo portate qui nell’809», quando la nave che trasportava le spoglie da Costantinopoli a Venezia riparò nel fiordo a causa di una tempesta e il fatto venne letto come la volontà del santo di riposare in quel posto unico al mondo.
«Mio padre, che ha 90 anni ed è avvocato, ricorda bene che dopo l’armistizio del 1943 la gran parte degli italiani della Divisione Garibaldi restò per aiutare i nostri partigiani nella lotta contro i nazisti», conferma Dender. Ha avi italiani e montenegrini, cechi e austro-ungarici, ma il suo fiore all’occhiello è il trisnonno Antonio Martecchini, uno dei più importanti stampatori della storia.
Un passato lontano che però riaffiora ad ogni passo, si respira, si vede nelle case e nelle chiese. «Per la nostra Comunità è arrivato il momento di restituire, non più di ricevere soltanto: saremo il nesso tra Italia e Montenegro, intendiamo coinvolgere le ditte italiane, produrre economia ». Proprio ieri a Trieste è stato siglato un accordo storico con il Porto di Cattaro, che si impegna a promuovere il porto italiano per l’ormeggio invernale e i servizi di manutenzione dei 1.700 grandi yacht che ogni estate raggiungono il Montenegro. Una svolta, in tempi di crisi, che mira a portare in Friuli-Venezia Giulia un turismo di qualità. «L’accordo nasce nell’ambito della cooperazione internazionale da tempo avviata con il Montenegro, proprio grazie alla vivace Comunità italiana e dell’attiva presenza lì dell’Università Popolare di Trieste», fa sapere la Regione.
Radici, storie, legami, nostalgie, affetti… Come ai tempi di Venezia la Serenissima. Sopra Cattaro la veneta vegliano, in pietra, venti Leoni di San Marco, tutti con il libro aperto. Come si usava per indicare che erano tempi di pace. (da Avvenire)