Una breve striscia di mare separa le coste dell’Africa settentrionale da quelle italiane. In linea d’aria, tra Lampedusa e Tripoli corrono 355 chilometri, tra Tunisi e la Sicilia appena 150: ancor meno che tra Milano e Modena. Eppure due mondi si fronteggiano osservandosi dalle sponde del Mediterraneo. Si tratta di due mondi antitetici che solamente la vicinanza geografica e un diffuso sentimento di terrore sembrano ormai unire.
Le primavere arabe, scoppiate nel 2011, hanno presto estinto la ventata di cambiamento della quale erano portatrici, ma la tempesta non ha spento le fiammelle che da tempo ardevano tra le sabbie nordafricane: anzi, ha innescato una confusa reazione a catena, le cui origini sono da ricercarsi molto in là nel passato, addirittura nei secoli di decadenza dell’impero ottomano. Oggi quelle fiammelle da scintille si sono fatte incendi, e l’acqua del mare riflette rossa le fiamme, nubi di fumo e di cenere tra Bengasi e la Tripolitania. Dall’altra parte assistiamo all’impoverimento delle aree interne del Sahel, complici lo sfruttamento intensivo operato dalle multinazionali occidentali e i brutali cambiamenti climatici: tutti fattori questi che alimentano il risentimento delle popolazioni locali nei confronti dell’Occidente, legittimando così le derive più estremiste, ma che soprattutto abbandonano alla fame e agli stenti larghissime fasce della popolazione.
La situazione non è semplice, tanto che difficilmente potrebbe essere riassunta efficacemente in poche righe, ma ciò che appare più che evidente è la responsabilità di noi occidentali, europei e no, per i danni causati tanto dal colonialismo e quanto da quella graduale erosione, da quello sfruttamento delle risorse proprie dell’Africa che va sotto il nome di neocolonialismo. È questa la terribile responsabilità che, sotto le spoglie dell’estremismo jihadista e di smisurate ondate migratorie, oggi si abbatte su noi con tutto il suo peso.
Profughi di guerra, profughi delle lotte tribali nelle profondità del continente africano, profughi in fuga dalla povertà e dalla fame: è questa la compagine umana che si affolla giorno per giorno sulle coste della Libia, della Tunisia, che affida le proprie incerte sorti a uomini senza scrupoli con la promessa di giungere sani e salvi in Europa. Uno scenario di sangue e terrore, tra profughi, guerriglieri, mercenari e scafisti; uno scenario quasi apocalittico tra le dune cocenti del Nord Africa, nel quale a demoni brutali si alternano i portatori dei sentimenti più puri: religiosi, medici, umana fratellanza e sacrificio tra le macerie.
Ma cosa accade dall’altra parte del mare? Quali sono i nostri sentimenti nei confronti degli ultimi della terra? Siamo tanto pronti a riempirci la bocca di tante belle parole: accoglienza, integrazione, democrazia, ma, di fatto, essi rappresentano un mero problema economico, una mandria da sistemare al più presto in qualche posto senza urtare troppo l’opinione pubblica, e da integrare nella nostra sacrosanta società. Oppure ci dedichiamo a sputare su questi uomini sporchi e senza casa, vagheggiando di ricacciarli da dove vengono, di chiudere i confini “perché tutti gli altri stati europei fanno così”.
Occidente… Una società opulenta, fiera delle proprie conquiste ed impaziente di conservarle, simile ad un maestoso destriero tronfio nella sua possanza, pronto a calpestare i vinti e gli umili. Eppure cieco dinnanzi alla morte: esso non vuole conoscerla, non vuole guardarla in volto, schifato dal proprio male. Cerchiamo di fuggire la morte, ma soprattutto abbiamo dimenticato l’umanità, abbiamo dimenticato cosa significa essere uomini. Sono quei puntini neri o colorati, forse uccelli marini, forse esseri umani nel mare blu appena increspato, come scrive magistralmente Adriano Sofri sul La Repubblica dell’8 agosto, a ricordarcelo. I volti sfigurati, le schiene sudate, i corpi nudi marchiati dal fuoco e dalla violenza, la sofferenza negli occhi e, nel cuore, la speranza: sono questi i diseredati della terra. Uomini che tentano disperatamente di mettere in salvo le proprie famiglie, di costruirsi un futuro laddove la terra è ormai in fiamme. Essi ci gettano in faccia la nostra meschinità e il nostro egoismo, il perbenismo di facciata e il nulla che caratterizza il nostro mondo fatiscente.
Essi, con i loro drammi, le loro speranze, i loro peccati portano, impressa sul volto come un marchio, qualcosa che noi abbiamo perduto, che abbiamo gettato in mare, una perla creduta fastidioso sassolino: l’umanità, l’autenticità di sentimenti, le illusioni. Ed è questo il dramma.
Non siamo capaci di rispondere loro adeguatamente: anche l’Europa è prostrata da una crisi di natura economica e politica, anche noi “abbiamo i nostri problemi e non possiamo badare agli altri”; v’è poi la leggenda per la quale “gli immigrati vengono tutti da noi, mentre gli altri paesi se ne fregano”. Dovrebbero integrarsi, e noi dovremmo sistemarli da qualche parte, aspettare gli aiuti dell’UE o rimandarli a casa loro. Possibile essere così gretti, così piccolo borghesi? Possibile che, al culmine dell’era del progresso e della tecnica, abbiamo scordato che questi diseredati sono in primo luogo uomini, dunque nostri fratelli, e solo poi copti o musulmani, libici o nigeriani?
Non si tratta di chiamare in gioco le grandi virtù dell’uomo occidentale, dalla politica alla libertà. Non si tratta nemmeno di appellarsi ai diritti dell’uomo. Dovremmo invece guardare in noi stessi e renderci conto della pochezza, della meschinità che ormai ci connotano, e cercare, come ricordano ormai solo Papa Francesco e la Chiesa cattolica, voci nel deserto, di risvegliare un sentimento sopito più antico di tutti i secoli: la carità. La carità verso gli ultimi.
Ci gloriamo ogni giorno di essere cattolici, spesso confondendo il cattolicesimo con la difesa identitaria. Da veri cattolici dovremmo invece ricordare che tra le grandi vocazioni della Chiesa v’è quella alla missione, poiché “tutta questa gente fu creata da Dio…”, come scriveva nel XVI secolo il domenicano Bartolomeo de Las Casas. Nel concreto: potremmo tendere la mano, e non per rinchiuderli in un campo profughi, e condividere le proprie risorse. Abbiamo ancora molto da offrire, in quanto a potenzialità economiche, e molto da apprendere nuovamente. Potremmo addirittura risollevarci insieme e ricordare all’Unione Europea, all’Occidente e al mondo che v’è ancora speranza. Essa risiede, gemma in uno scrigno, nella vocazione alla compassione.