Settantun anni or sono, l’11 agosto 1944, le truppe alleate – da tempo ferme a sud di Firenze, in località Falciani, sulla Cassia – entrarono in Firenze dalla Porta Romana e, percorrendo Via Serragli, passarono l’Arno su un Ponte alla carraia che i tedeschi avevano fatto saltare non molte ore prima, che però fu subito ricostruito in elementi prefabbricati in ferro e che restò da allora in opera un bel po’ di anni, prima della sua ricostruzione abbastanza fedele all’originale. Di quella giornata conservo, bambino di appena quattro anni, qualche flash nella mia memoria in quanto la casa nella quale ero nato – anche se purtroppo non apparteneva alla mia famiglia, che ci viveva in affitto da circa cinque anni e l’avrebbe mantenuta per altri dodici – era esattamente quella d’angolo, al lato sud dell’incrocio tra Via dei Serragli e Via di Serumido, al numero civico 7 di quella seconda via dal nome un po’ ridicolo che univa la Via dei Serragli alla Via Romana, la quale altro non era se non il tratto intraurbano della nuova Cassia, che al capo meridionale del Ponte Vecchio si univa alla vecchia – la quale proveniva dalla Porta San Nicolò – per attraversare poi Firenze secondo il tracciato dell’antico cardo maximus di Florentia, da Via Por Santa Maria che poi diveniva Via Calimala e quindi Via Roma per giungere in Piazza San Giovanni – dove più o meno era sita la porta settentrionale dell’antica cerchia muraria – e proseguire poi bella dritta divenendo successivamente Borgo San Lorenzo, Via de’ Ginori, Via San Gallo e infine (passata la Porta San Gallo dell’ultima cerchia e l’arco di trionfo lorenese eretto in onore del granduca Francesco Stefano, marito dell’imperatrice Maria Teresa) riprendeva il tracciato della Cassia come Via Bolognese per affrontare il Mugello e il Passo della Futa.
Affacciato alla finestra della camera da letto dei miei, al primo piano della nostra modesta casa che ancora con commozione e affetto ricordo, assistevo in braccio al babbo (che era rimasto mesi nascosto in casa, rocambolescamente sfuggito alla leva di Salò anche con la complicità di suo cognato, zio Roberto, che militava invece nella GNR) alla sfilata delle unità alleate e dei partigiani che le seguivano. Il babbo cercava sobriamente di darmi qualche spiegazione di quel che vedevo, ma di esse non ricordo nulla: ricordo invece le armi, i colori, le bandiere, le voci, i canti, l’aria di festa, lo sferragliare delle macchine a motore.
Sono tornato più volte su quella giornata, che nella mia città ancor oggi si celebra come “festa della Liberazione” e addirittura “dell’Insurrezione” di Firenze. Ricordo vagamente che allora si parlava di “franchi tiratori” asserragliati dalle parti di piazza Torquato Tasso; più tardi avrei letta la pagine terribile eppure a modo suo quasi paradossalmente umoristica con la quale Curzio Malaparte – allora ufficiale del Corpo Volontari della Libertà – avrebbe descritto la fucilazione sommaria di qualche decina di ragazzi davanti alla facciata di Santa Maria Novella. Vennero ammazzati lì per lì, seduta stante, senza processo: nessuno ha mai capito se davvero erano i truci e vili “fascisti” che sparavano indiscriminatamente addosso alla gente, come li descrive Roberto Rossellini in Paisà. Qualcuno racconta quelle vecchie storie in modo diverso: e chissà, quando gli ultimi testimoni oculari in grado di ricordare qualcosa di preciso al riguardo (e parlo di gente che ormai è almeno sulla novantina) se ne saranno andati, ci sarà magari qualche storico che ricostruirà quelle vicende sulla base di documenti adesso perduti o dimenticati. Perché può sembrare strano, ma sovente i testimoni oculari sviano, ingannano, ricordano male (volontariamente o no). Come ben osserva Carlo Ginzburg, la testimonianza diretta non sempre è buona consigliera: quante povere donne, fra Tre e Settecento, sono morte bruciate su un rogo perché alcuni testimoni oculari assicuravano di averle viste volare di notte?
Ho conosciuto in seguito molti testimoni oculari della liberazione di Firenze: e anche qualche protagonista di essa, come il professor Carlo Francovich, finissimo studioso di storia sette-ottocentesca e a lungo presidente dell’Istituto Storico della resistenza in Toscana: un appassionato della musica di Mozart, fierissimo delle sue aristocratiche origini croate, padre di due amici meravigliosi entrambi purtroppo precocemente scomparsi, lo storico contemporaneista Giovanni e l’archeologo medievista Riccardo. Carlo aveva scritto, sulla liberazione di Firenze, pagine appassionate ma oneste, disincantate e convincenti. Un altro protagonista di quelle giornate era l’allora neppur trentenne Giorgio Spini, ufficiale di collegamento tra l’esercito britannico – del quale vestiva l’uniforme – e quello italiano del regno del Sud: più tardi, tra 1971 e 1985, fui suo assistente alla cattedra di Storia medievale e moderna della Facoltà di magistero dell’Università di Firenze ed egli (socialista e cristiano metodista) fu un Maestro e per molti versi quasi un padre per quel bizzarro aspirante studioso che gli era capitato in sorte e che era piovuto nella sua Facoltà avvolto da un’aura sulfurea di reazionarismo cattolico e neofascista. Da Giorgio Spini ho imparato non solo sulla troppo abusata “tolleranza”, bensì su cose ben più serie e concrete (il rispetto reciproco, lo sforzo di comprensione reciproca, il superamento dei pregiudizi, la curiosità materiata di simpatìa per l’”Altro” e il “Diverso”, il coraggio di mettersi continuamente in discussione, la consapevolezza della “relatività” – ch’è ben altra cosa dal “relativismo” – di tutto quel ch’è umano), una lezione che da allora in poi non mi ha mai abbandonato e a proposito della quale non cesserò mai di essergli riconoscente.
Più tardi ho avuto l’onore del tutto immeritato di goder della stima e dell’amicizia del grande filologo e boccaccista Vittore Branca che – savonese di nascita, lombardo d’origine e veneto di adozione – aveva trascorso il duro biennio 1943-44 a Firenze, dove studiava, lavorava ed era anche membro del CNLT, il clandestino Comitato Nazionale di Liberazione per la Toscana, dove insieme con Adone Zoli rappresentava la Democrazia Cristiana e all’interno del quale, nell’aprile del ’44, aveva con molto coraggio protestato contro l’assassinio del suo vecchio Maestro della Normale di Pisa, Giovanni Gentile. L’anziano filosofo aveva ricevuto pochi giorni prima di venir proditoriamente ucciso il suo giovane allievo, i sentimenti antifascisti del quale ben conosceva, e lo aveva pregato di collaborare con qualche saggio alla rivista “La Nuova Antologia”: Branca aveva rifiutato, con cortesia e rispetto ma anche con fermezza e quasi con durezza, in quanto si rendeva conto che quella collaborazione, in quel particolare momento, avrebbe significato una scelta di campo in contrasto con la sua militanza resistenziale. Anche più tardi Branca sarebbe tornato più volte, senza rimorsi ma con dolore, su quella pagina difficile della sua esistenza.
E proprio a Vittore Branca, che del resto l’ha rievocato nelle sue Memorie, debbo un altro ricordo relativo a quei giorni di guerra in Toscana. Immediatamente dopo il passaggio del fronte a nord dell’Arno si tenne la cerimonia formale della resa di quel che restava delle truppe germaniche (quasi tutte ritiratesi a settentrione). In quell’occasione, su un’idea e una proposta di Giorgio La Pira, si realizzò quasi una “prova generale” di quella pace per la quale si sarebbero dovuti attendere ancora circa otto duri mesi. La Pira trasformò la cerimonia militare e civile in una specie di laico Te Deum nel corso del quale i firmatari, a turno, recitarono una strofa del Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi. L’onore della lettura di un brano di quel poema che parla della pace e dell’amore universale fu sollecitato anche dall’alto ufficiale tedesco firmatario del documento: il quale, dignitosamente chiuso nella sua uniforme feldgrau dalla quale – come si addice a un militare che si è arreso ed è prigioniero del nemico – aveva rimosso gradi, insegne e decorazioni, recitò venuto il suo turno le poche righe redatte oltre sette secoli prima dal Povero di Assisi.
Torno adesso a quel lontano ricordo di un tempo in cui, pur in mezzo alla ferocia e alla crudeltà, si era ancora capaci di gesti d’umanità e di cavalleria, perché mi sembra che nella barbarie postmoderna nella quale oggi siamo precipitati – fra devoti tagliatori di teste e democratici invocatori di mitragliate su poveri migranti a bordo di fatiscenti imbarcazioni – l’immagine di quell’ufficiale della Wermacht di cui non ho mai saputo il nome e dei suoi colleghi e nemici angloamericani e partigiani che con lui pregarono in quel giorno d’agosto appartenga alle cose che è necessario tenere a mente oggi, per non smarrire quella dignità umana che per troppi segni sembra oggi in pericolo.