L’estate, come ci stiamo ostinando a dire da tempo qui su Barbadillo.it, è il tempo delle storie, delle leggende. Il calcio è terreno fertilissimo alla nascita di miti, eroi, antieroi e comparse. Servi e padroni, guerrieri e maghi, Ettore, Achille e Patroclo – non potendosi più sfidare alle porte di Troia – ora giocano a pallone. Certo, sarebbe meglio se le loro gesta non fossero teatro di epici scontri tra i titani inferi delle televisioni commerciali e se a tutti venisse concesso libero accesso e libero arbitrio nelle arene degli stadi del mondo. Vabbè, dicevamo le storie e le leggende. Troppo facile citare i campioni affermati, fatti, finiti e conclamati. Quelli che hanno vinto e quelli che hanno alzato le coppe al cielo. No, la leggenda spesso si cela dietro i personaggi oscuri. Il mondo non sarebbe stato lo stesso se Aiace Telamonio non fosse impazzito o se Nestore avesse negato a Telemaco consigli e contatti. Il calcio, senza le grandi battaglie e senza i mondiali, non avrebbe il fascino che ha. E senza attori più o meno pittoreschi, misconosciuti, eroi negletti, guerrieri sfigati o paladini a corto di vittorie, nemmeno i mondiali ci divertirebbero così nel grande gioco del ricordo.
Partiremo con i portieri, dato che questi è il numero uno (nonostante fantasie, esorcismi e alzate di genio). Il portiere è il bandito del calcio, solo è tra i pali solo è nella sconfitta. Basta un errore per annullare anni di miracoli. Banditi dal gruppo, con i guanti e la maglia diversa dagli altri.
LO STREGONE DELL’AREA PICCOLA. Thomas N’Kono lo avevamo già conosciuto in Spagna, nel 1982. Quando sbattè, serrandola, la porta in faccia agli azzurri di Bearzot per tutto un primo tempo – tesissimo – dell’Italia-Camerun decisiva per la qualificazione. Scivolò, alla ripresa, sul colpo di testa di Ciccio Graziani e diede poi estro alla penna di Oliviero Beha che, qualche mese dopo, parlò di partita addomesticata. Esplose, nell’immaginario collettivo, otto anni dopo, a Italia ’90. Nessuno, per l’ennesima volta, dava retta a quella banda di gioiosi africani messi su alla bell’e meglio da uno stregone. Figurarsi, poi, credere davvero in un portiere di colore. Quelli lì son forti in attacco, in velocità, ma in porta no. Eppure la sua calzamaglia nera lunga inghiottita da due calzettoni bianchi stregò un ragazzino di Carrara che anni dopo diventerà Gianluigi Buffon. Esplosivo, plateale, carismatico, efficace: tra gli idoli, i simboli e le icone di un pallone esoterico, finirà in manette per un controverso caso di vudù calcistico nel 2002. L’Africa nera è terra degli stregoni, che sanno giocare a pallone.
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MOHAMED D’ARABIA. Il problema, come ci insegna il monologo iniziale de “L’Odio”, non è mai la caduta ma l’atterraggio. Più sei in alto più, a terra, farai davvero tanto ma tanto rumore. Mohamed Al Deayea è stato il Dino Zoff dell’Arabia Saudita. Colonna dell’Al Hilal, la Juve del Vicino Oriente, Al Deayea stava quasi per fare il colpaccio dato che – raccontano le cronache – il signor Alex Ferguson gli stava per regalare la maglia del Manchester United che fu di tale Peter Schmeichel. Poi, però, arrivò il gatto francese Fabien Barthez. La Cnn l’ha inserito nella sua (discutibile) top ten dei portieri d’ogni epoca. Le tappe della sua carriera hanno caratterizzato il rendimento della stessa Arabia Saudita. Quando chiudeva la porta in faccia ai maestri inglesi, i Figli del Deserto vincevano le coppe d’Asia. Quando ha cominciato ad avere qualche dubbio, la “verde” s’è ritrovata a segnare un record. Negativo. Mai prima del tracollo di Sapporo, nel giugno del 2002, s’era visto un 8-0 ai Mondiali. E mai più si rivedrà. Tra i pali c’era lui, in caduta libera. E più che un atterraggio fu un tonfo.
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IL GUARDAMETA FLUO. Quando cessò l’obbligo del lutto, i portieri si trovarono di fronte a una scelta: vestire sobri o sgargianti? Zoff, alfiere della misuratezza, asserì che “il portiere meno si vede e meglio è”. Altri, invece, credevano che vestendo colori fluo potessero trarre in inganno gli avversari inducendo i centravanti nemici a gettare il pallone tra le loro braccia. L’apice di questa scuola di pensiero venne raggiunto dai vortici psichedelici di Jorge Campos, gatto messicano che si vestiva da Austin Powers. Se le disegnava da solo, le divise. Era uno sfogo per la sua strabordante personalità. “Riesco a parare bene perchè indosso una maglia da Arlecchino e tanti colori attirano la palla”, diceva. I portieri sono matti, Campos era un portiere di questa scuola qui. Schiacciato dal culto della personalità cui indottrinò buona parte delle menti calciofile che in quegli anni ’90 andavano formandosi, Jorge è stato – con tutta una serie di limiti dovuti anche alla statura non proprio watussa – un buon estremo difensore e pure un prolifico attaccante, a inizio carriera. Coraggioso al limite (abbondantemente varcato) dell’incoscienza, il Messico (e il mondo) non conoscerà più un altro portiere a lui paragonabile per follia e allegra strafottenza.
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“BENJI, SEI GAY?”. C’è tanta curiosità, nel 1998. In Francia si è presentata una squadra che rappresenterà per la prima volta nella storia dei mondiali di calcio niente poco di meno che il Giappone. I tempi, a pensarci bene, sono pure giusti. Tutti ci scherzano su, Holly Hutton e Mark Lenders sono pronti a prendersi la Coppa del Mondo. In porta c’è uno strano ibrido: ha il fisico e lo sguardo determinato di Benji Price, il coraggio e la spericolatezza di Ed Warner. Si chiama Yoshikatsu Kawaguchi. Nel gruppo H va malissimo: Argentina e Croazia passeggiano, pure la Giamaica si toglie lo sfizio di batterli con due reti di Whitemore. Ma s’è fatto notare: se lo prende il Portsmouth. Ma in Inghilterra va male e, quattro anni dopo France 98, non è più il titolare in nazionale. Kawaguchi se la prende a male e monta il caso: “Troussier (il ct dell’epoca ndr) mi credeva omosessuale e non mi faceva giocare”. Adesso, dopo lunga e decorosa militanza nello Jubilo Iwata gioca ancora, con il Gifu, serie B nipponica.
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PUMP IT UP, DJ RUSLAN. La Russia è terra di portieri e d’ordine. Lev Jascin, su tutti. Rinat Dasaev, per continuare. Nel 2002, tra Corea e Giappone, in porta c’è Ruslan Nigmatullin. Le credenziali sono ottime, lo incensano (ennesimo) erede del Ragno Nero. Inamoto lo bucò, nel secondo incontro contro i nipponici dopo la vittoria contro la Tunisia. Pianse nel drammatico 2-3 che il Belgio rifilò alla sua Russia. Sempre incolpevole. Dopo quel mondiale la saracinesca del Lokomotiv Mosca se ne andò al Verona, salvo tornare al Cska e rimpallare di nuovo in Italia, alla Salernitana. Quindi litigò con Moggi e chiuse con il Bel Paese. C’era qualcosa, nello sguardo, che già faceva presagire qualcosa in quello spilungone con il fisico gentile e i tratti quasi greci. Aveva scoperto qualcosa. Termina la carriera e si reinventa. Cambia musica, ora fa il deejay e mixa vecchie canzoni italiane.
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