Pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Angelo Mellone per l’editore Baldini e Castoldi, un romanzo sulla gioventù a destra.
“Salirono le scale in fila indiana. Sul citofono c’era scritto: Msi-Dn Federazione di Taranto. Una piccola fiamma tricolore accanto alla dicitura, la plastica del tasto fusa da qualche accendino teppista. Dindo aveva stretto la mano di Valeria e l’aveva trascinata su in apnea, tre scalini alla volta. Era stato lui, in una catena infinita di insistenze, a scatenare negli altri la voglia di quel salto in un mondo fino ad allora solo assaporato, vagheggiato nei manifesti appiccicati sui muri, rivendicato scrivendo Fare fronte per il contropotere studentesco sulle pagine del diario del compagno di banco, scrutato ai volantinaggi o nelle assemblee di istituto negli occhiali a specchio dei ragazzi più grandi di loro che avevano già scelto da che parte stare. La contaminazione aveva funzionato secondo una precisa osmosi. Prima Dindo aveva coinvolto Gorgo. Gorgo aveva convinto Claudio. Vieni con noi, mena bello.
Suonarono il campanello e dopo pochi istanti aprì loro Gino, un diciottenne alto e adiposo, figlio dell’unico consigliere comunale del Movimento sociale a Taranto, che si era inventato il ruolo di custode della Federazione per sbarcare il lunario della sua monotonia. Lo scrutarono tutti e quattro da capo a piedi: i pantaloni di velluto larghi e calati, le scarpe scamosciate e consunte, la felpa di una marca d’aranciata, la testa dondolante e lo sguardo bovino non fornirono esattamente l’immagine dell’avanguardista che si sarebbero aspettati ad attenderli davanti a quell’ingresso.
«Uè, Chiodo.»
«Ciao, Ginuzzo. Stanno in ordine i capelli, oggi.»
«Fai poco lo spiritoso. Che vogliono questi giovani?»
Gino abbozzò un sorriso guardingo e volgare, aggrottando le sopracciglia.
«Si vogliono tesserare al Fronte.»
«Non so se sta qualcuno. Vai a controllare tu nella stanza in fondo.»
La Federazione era un appartamento costruito attorno a un corridoio spoglio, a parte qualche manifesto attaccato con le punes, con i muri di colore beige e le intercapedini piene di umidità. Non vedeva la mano un imbianchino da molto tempo. Di fronte l’ingresso si apriva la sala riunioni: una ventina di sedie una diversa dall’altra, probabilmente sottratte alle abitazioni di qualche iscritto o prelevate alla discarica, una scrivania di formica e, sul muro in fondo, una bandiera del partito, la fotografia di Giorgio Almirante e il suo manifesto in primo piano, sorridente e intenso, con la scritta Noi possiamo guardarti negli occhi.
Al lato destro del salone stava un bugigattolo pieno di rotoli di manifesti, secchi e scope, risme di carta, un piccolo ciclostile, qualche mazza di legno e pacchi di colla per gli attacchinaggi, e un bastone da passeggio che apparteneva al nonno di Gino, capo partito degli anni Sessanta, e ogni tanto veniva portato alle manifestazioni come amuleto. A sinistra si apriva la stanza del federale, quel pomeriggio occupata da una partita di quintino.
Quattro persone sulla cinquantina, uno dei quali portava un grande paio di baffi ottocenteschi e una maglietta della Raffo, alzarono lo sguardo e salutarono. Claudio ricordò che quello che stava dando le carte, leggermente stempiato, con un maglioncino rosso e una montatura di occhiali piuttosto signorile, l’aveva visto una volta passare davanti al Ferraris, lo scientifico, quando era venuto a recuperare in presidenza il figlio con il naso rotto e una tempia sanguinante. Il ragazzo aveva giurato fino allo spasimo di essere caduto dalle scale, ma tutti sapevano che era stata un’aggressione. Prontamente ricambiata un paio di giorni appresso.
In fondo al corridoio, come aveva detto Gino, c’era la stanza assegnata al Fronte della Gioventù. Chiodo gli fece strada. Era più piccola delle altre due, affollata di pacchi di volantini e manifesti. Dindo notò quello contro il nucleare, che affiancava uno di solidarietà alla lotta degli irlandesi del Nord, senza capirne bene il senso. Una bandiera nera con una croce celtica bianca era attaccata su un muro in verticale. Su un cartellone di sughero, accanto ad appunti e scarabocchi, erano appiccicati diversi adesivi. Seduto dietro un tavolino formato con due banchi di scuola, un ragazzo li salutò con un sorriso affabile. Fece simpatia immediata a tutti, quella faccia rotonda, e il naso che pareva il dorso irsuto di una falesia.
«Nà, guarda chi si vede, il nostro eroe della curva.»
«Fai poco ’u stuedeche, che metà di quelli che stanno qua te li ho portati io…»
Quello si alzò e venne loro incontro.
«Salve, ragazzi, sono Enrico, ma tutti mi chiamano Manolesta.»
Scossero la testa in segno di saluto. Nessuno diede voce.”
*Estratto da “Nessuna croce manca”, in uscita il 2 settembre (per contattare l’autore si può scrivere a: angelo.mellone@alice.it)