Bandiere a mezz’asta in tutto il Paese, l’estremo saluto nel palazzo del parlamento, infine i funerali privati. Così l’Uruguay ha detto addio ieri ad Alcides Ghiggia, l’eroe e l’ultimo superstite di quella Nazionale che nel 1950 firmò l’impresa del Maracanà. Se n’è andato in silenzio, ad ottantotto anni, l’uomo che col suo gol decisivo aveva lasciato in silenzio i duecentomila spettatori della finale vinta per 2 a 1 contro i favoritissimi padroni di casa. L’ex ala destra della Celeste ha chiuso gli occhi per sempre in un altro 16 luglio, a sessantacinque anni esatti dal trionfo: quasi che Eupalla, il breriano dio del pallone, avesse voluto concedergli attraverso questo gioco di date un’ultima possibilità di ricordare al mondo chi era stato.
Quella sfida tra Brasile e Uruguay su cui infinite volte si è esercitata la fantasia degli aedi sportivi non è stata solo l’archetipo di tutti gli scontri fra Davide e Golia, o fra il calcio operaio e difensivo e quello delle grandi stelle. È stata, in qualche modo, la fine di un mondo, l’episodio che segnò il trapasso tra il mito e la storia del calcio. Una favola del genere non si sarebbe mai più ripetuta, e infatti oggi è impossibile perfino immaginare che possa accadere di nuovo.
Il “foot-ball” dei sodalizi studenteschi e dopolavoristici di inizio Novecento stava ormai diventando qualcosa di diverso sotto ogni aspetto. L’era dei palloni di cuoio, dei capitani-allenatori e delle contese tattiche tra “metodisti” e “sistemisti” volgeva così al termine. Solo quattro anni dopo l’epopea carioca dell’Uruguay, nel Mondiale svizzero, l’Ungheria d’oro di Puskas cedeva alla Germania Ovest: i pesanti sospetti di doping tedesco si intrecciarono alle insinuazioni sull’opportunità diplomatica di quella vittoria, che sanciva il primo riscatto della Germania ricostruita dall’umiliazione della sconfitta in guerra. Il calcio perdeva allora la sua innocenza consegnandosi alla preparazione atletica e alle contese geopolitiche, e guadagnava un protagonista assoluto che ne avrebbe segnato per sempre il cammino: la televisione.
Ma il Maracanazo fu un evento catartico perfino per chi lo subì come una tragedia sportiva (e non solo): dalle ceneri di quella disfatta nacque un Brasile rinnovato perfino nei colori, quelli della camiseta verdeoro che sostituì la divisa biancoblu. Per questo, ha ricordato il quotidiano brasiliano O Globo, si può dire che la Seleçao dei Garrincha e dei Pelé è un po’ figlia di Ghiggia e dei suoi compagni: senza quel 16 luglio 1950, anche il suo destino sarebbe stato diverso.
Si racconta che il roccioso capitano uruguagio Obdulio Varela, detto el Negro Jefe, trascorse la notte del trionfo tra i bar di Rio de Janeiro, osservando i volti sfatti degli avventori e quasi pentendosi del dolore irreparabile che i suoi ragazzi avevano inferto al Brasile. Ghiggia, il grande nemico, non ha mai mostrato queste remore: lo si ricorda per aver sentenziato “solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanà: Frank Sinatra, Giovanni Paolo II e io”.
Un pensiero in linea con il carattere spavaldo e guascone del personaggio, che in vita non si è fatto mancare niente: tre mogli (l’ultima, Beatriz, di 35 anni più giovane), un bel po’ di dissipatezze negli anni belli e un’infinità di mestieri dopo il ritiro, dal sorvegliante di casinò al direttore di supermercato, prima che lo Stato si decidesse a riconoscergli una modesta pensione. Non gli ha mai difettato la garra charrúa, il piglio grintoso dei suoi connazionali: il trasferimento in Italia, con sette stagioni alla Roma e una al Milan, fu propiziato da una squalifica di otto mesi rifilatagli in patria per aver preso a pugni un arbitro.
Eppure lo si ricorda come l’unico uruguaiano di fama (e che fama) ad aver condannato il raptus di Luis Suarez durante la sfida con l’Italia, negli ultimi mondiali: “No sé este muchacho qué piensa y qué tiene en la cabeza” commentò dopo aver assistito al morso ai danni di Chiellini, aggiungendo che sentiva di dover condannare qualunque episodio del genere “perché non si tratta di una guerra”. Mentre un’intera nazione, a partire dall’allora presidente Mujica, si ribellava alla squalifica, l’anziano Ghiggia ebbe il coraggio di zittire di nuovo un Paese, e questa volta il suo. Molti connazionali non la presero bene, tanto da riversare epiteti irripetibili sui social network. La riconoscenza è merce rara, ma è probabile che il vecchio Alcides, se mai lo è venuto a sapere, abbia liquidato queste ragazzate con un’alzata di spalle.
Ora, spenti i sussurri e le grida, le sue spoglie riposeranno per sempre nel Panteón de los Olímpicos al cimitero del Buceo di Montevideo. A fianco della sua tomba quella di Alberto Schiaffino, l’altro indimenticato trascinatore di quella finale. E così sarà solo silenzio, proprio come nel pomeriggio di quell’eterno 16 luglio del 1950, al minuto settantanovesimo di Brasile-Uruguay, sotto il sole immobile di Rio de Janeiro.