Jules Bianchi è morto, dopo mesi di tremenda agonia. La notizia della morte di un ragazzo pieno di vita, talento e sogni è sempre la più ferale di tutte. Ti costringe a pensare e ripensare, sperare e disperare, a ripassare a memoria tutti gli insopportabili proverbietti consolatori, a leggere tutte le locuzioni angeliche strappalike, a tributare cordoglianze a mezzo hashtag e a intuire l’inconfessabile e collettivo orgasmo social di chi, come ci insegna Lucrezio, guardando la nave che affonda pensa alla gran fortuna di non esserci lui a bordo. Jules Bianchi è morto, la sua scomparsa non sia vana.
Sarebbe obbligatorio, adesso, citare le morti eccellenti che hanno fatto da macabro preludio all’ultimo drammatico lutto patito dagli sport motoristici. Il mitico Ayrton Senna, il due volte sfortunatissimo Roland Raztenberger morto solo qualche ora prima del brasiliano e dal di lui mito schiacciato post mortem. E poi la leggenda di Gilles Villeneuve fino alle lacrime, non ancora asciutte, per Marco Simoncelli.
Piangere il lutto è umano, autentico. Jules Bianchi, però, non è morto invano. L’incidente gli è capitato mentre, proprio come Senna, Ratzenberger, Villeneuve e Simoncelli, faceva ciò che più gli piaceva al mondo, ciò per cui era nato. Le anime belle, quelle col doppio fondo carico di banale ipocrisia, parleranno di morte inutile. Non è così: il fascino del pilota è quello del cavaliere futurista, è l’uomo spinto sulle ali vorticose della velocità, è Gazurmah che si libra in volo. Sa di poter morire, sa di essere mezza macchina, sa di dover restare umano per vincere contro la macchina e gli elementi, sa che in questa lotta potrà morire.
Una lotta che l’ipocrisia del terzo millenio vuole obsoleta. L’uomo, che si pretende giunto ormai al capolinea della storia, non lotta più ma mangia, prega e ama. Che nient’altro sembra che la versione edulcorata, simpatica e vagamene intellettualoide del “produci-consuma-crepa”, in voga qualche anno fa. Il tabù della morte, perno centrale dell’utilitarismo occidentale, conosce mille strade e mille rivoli di pianto sui quali viaggiare per perpretare se stesso e le sue propaggini. Anche il bollare come inutile la morte di uno sportivo.
La stessa F1 ha cercato di allontanare da sè, il più possibile, lo spettro della fatalità, il rischio del dramma, la fatalità dietro a ogni curva. Giustamente, del resto. Giungendo, però, a paradossi stupidi e drammaticamente imbecilli. Come quello di minimizzare l’umanità del pilota e dell’accanirsi sulle forme dei gingilli elettromagnetici applicati ai deflettori anteriori. La F1 ne ha perduti di appassionati spettatori, annoiati e offesi dalla mancanza di uomini scompensata dalla boriosa abbondanza di ingegneri e nerd. La morte di Bianchi smentisce l’assurda pretesa della Fia: non parlare di uomini e di miti non significa allontanare la morte dai circuiti.
Nel florilegio luttuoso, compaiono nel frattempo tante frasi e tante parole. Il trigesimo e il decesso sono assi portanti della cultura moderna a quanto pare. Insieme a cagnolini e gattini, l’amore di riserva (che non si riversa più sugli indiani ormai quasi più ricchi di noi e sugli africani che oggi affollano i barconi) ha pur bisogno di uno sfogatoio in cui far riverberare i lampi grevi della sua luce. Occorre una distrazione, ogni tanto. Occorre osservare, dalla comoda spiaggia di casa l’affondamento delle barche altrui. Occorre, per vivere, qualche piccola consolazione. Occorre, per darsi un tono, fornire sempre e comunque lezioni non richieste.
Jules Bianchi è morto e non lo ha scelto. Non si è sacrificato per nessuno. Tuttavia non è manco morto per gioco e il fatto che sia stato uno sportivo non può dar fiato a chi tenta, sebbene inconsapevolmente, di acuire la tragedia svuotandola completamente di significato. Non si può morire per sport, è vero. Ma, se è per questo, non si può morire nemmeno di diabete o di vecchiaia. Il destino ce lo scegliamo noi ma il fato, quello, non guarda in faccia a nessuno.