Trattare del Futurismo non significa soltanto argomentare in ambito strettamente artistico, giacché il movimento fondato con apposito manifesto programmatico da Marinetti nel 1909 si pose da subito come un sistema alternativo e rivoluzionario di concepire l’esistenza moderna, riguardante certamente pittura e scultura tanto quanto musica, letteratura, architettura, cucina, abbigliamento e costume in genere. Ricordiamo, tra le molte espressioni sperimentate in quegli anni, l’attitudine “pubblicitaria” ma al contempo artigianale di Depero, l’invenzione della “tuta” paradossalmente coniugata a certe suggestioni esoteriche da parte di Thayaht, il fotodinamismo dei fratelli Bragaglia, l’Intonarumori di Russolo, l’estetica totalizzante di Balla applicata a vestiti, mobili e scenografie, il modernismo architettonico rimasto purtroppo utopico di Sant’Elia, l’astrattismo cosmico di Prampolini, il culto quasi patafisico per la Macchina di Pannaggi, l’aeropittura, negli ultimi moti vitalisti, di Crali, Dottori e Fillia. Una eterodossa compagine, quasi appendice libertaria dell’esperienza dannunziana di Fiume, tenuta insieme certamente dal carisma di Marinetti ma altrettanto dal desiderio di fondare un inedito codice estetico e valoriale quale segno indelebile dei tempi nuovi. E quindi ecco i temerari proclami, spesso accolti con canzonatoria insofferenza: asfaltiamo Venezia, fogna a cielo aperto! Uccidiamo il chiaro di luna, romantico passatismo per pusillanimi! Basta con paesaggi bucolici e leziose amenità , viva il treno l’aereo la macchina la fabbrica e la corrente elettrica! E Basta con la pastasciutta, pietanza da cartolina per pasciuti e rammolliti! Semplici provocazioni antiborghesi? O peggio, solo goliardia? Forse no, tant’è che se il progresso – si pensi al boom economico anni ’50 sospeso in una bolla atemporale – non ha ancora trovato una sintesi estetica rappresentativa e credibile, significa che molte delle questioni allora poste restano tuttora irrisolte.
Lo scrivente, poco interessato a rimescolare tutto il colto nozionismo prodotto dalla critica, divenuto assai cospicuo soprattutto dopo le celebrazioni del centenario del 2009, vorrebbe trattare l’argomento da una possibile diversa angolazione. Già tradito in vita, circoscrivibile dall’atto di fondazione al 1945, a causa del “ritorno all’ordine” voluto dal regime fascista – scelta non dissimile da quella che porto l’Unione Sovietica a trovare nel Realismo la forma espressiva più congeniale a discapito del Suprematismo – il movimento futurista venne frettolosamente dimenticato nel dopoguerra, sostituito da nuove correnti espressive, solo in minima parte debitrici delle intuizioni marinettiane (casi a parte, eterodossi ma non certo trascurabili, quelli di Lucio Fontana e Bruno Munari). Certamente è triste rammentare il declino umano affrontato in quegli anni dai pionieri dell’avanguardia perpetua, relegati per generalizzata compromissione col fascismo nella soffitta impolverata del vecchiume o come pane stantio nella minestra riscaldata di un improbabile secondo atto. La prima vera avanguardia artistica italiana, snobbata dall’allora critica militante in favore di esterofilia (“…ma che bello il Dada! ma quanto sono fighi i surrealisti? E la Pop Art? Geniale!”) rimase ibernata, pur avendo scatenato tutto quello che ancora oggi definiamo arte contemporanea, fino agli anni ’80 del secolo scorso, allorquando soprattutto dal mondo anglosassone giunsero entusiastici tributi retroattivi. A parte le opere originali, finite da tempo nei più importanti musei del mondo, fu la cultura pop emersa dalle nuove forme di comunicazione a tributare i dovuti onori al moderno genio rinnovatore italico. Dal tipico font geometrico alle nuove sonorità elettroniche – all’epoca un’etichetta inglese ebbe l’ardire di battezzarsi ZTT, acronimo di Zang Tumb Tumb, mentre a Firenze le Industrie Discografiche Lacerba licenziavano l’esordio dei Diaframma e i Bauhaus cantavano Who killed mr.moonlight? – dai tagli squadrati della moda allo slang dell’intrattenimento televisivo (quanto era futurista nel gergo onomatopeico il comico Francesco Salvi? O il primo allampanato Roberto D’Agostino? E che dire dei Krisma di Maurizio Arcieri e Cristina Moser? Avanti anni luce rispetto a tutto il resto) e addirittura dei cartoni animati, vi fu a tutti gli effetti un revival sommariamente credibile.
Ed oggi, 2015, cosa resta del Futurismo, se non un reiterato tradimento? Al MART di Rovereto vendono oggettistica futurista, si stampano testi dati per dispersi o escono nuove indagini – come l’eccellente La miscelazione futurista. Polibibite, la risposta autarchica italiana ai cocktail degli anni trenta – all’Eur gigantografie di Boccioni e soci fanno bella mostra nei locali, mentre in Triennale a Milano s’è da poco conclusa la meravigliosa mostra Il design italiano oltre la crisi, autarchia, austerità, autoproduzione. Un po’ ovunque emergono segnali d’interesse, tuttavia ad avviso dello scrivente, vincolati ad un approccio documentarista, storicizzante e, in molti casi piuttosto superficiale. Certo è che da bimbi s’immaginava imminente l’epoca delle astronavi in garage, mentre ora ci ritroviamo tutti mesti a rimpiangere la civiltà contadina e l’albero degli zoccoli: l’apologia del passato pare un’emorragia incontenibile, tanto da trovare orrenda sintesi espressiva nel termine vintage. Basti osservare il consenso generalizzato raccolto sui social network da una qualsiasi foto in bianco e nero, raffigurante scenari urbani ormai scomparsi, il lattaio o il maniscalco, il ritratto dei nonni o anche solo quello di noi quarantenni da piccoli, fosse anche l’immagine di una vecchia pubblicità del Campari, per comprendere che il passato rassicura bonario la generalizzata pavidità contemporanea, mentre l’avvenire, sempre dipinto oscuro ed alienante, suscita sospetti e timori. Eppure, nonostante oggi a vent’anni si sia già precocemente – e fastidiosamente – nostalgici, il futuro giungerà puntuale: tanto vale superarlo in velocità, senza mettere la freccia ovviamente, per farsene un’idea.