C’era qualcosa, nella Grande bellezza di Paolo Sorrentino, che mi richiamava a qualcosa d’altro che non riuscivo a definire, forse distratto dall’oggettivo fascino del film. Mi ha sciolto il nodo uno di quegli studenti che la nostra università sforna in continuazione nonostante se stessa, cioè bravo e intraprendente.
Si chiama Angelo Deiana – occhio vispo, parlantina, barbetta curata, iniziali sul colletto della camicia – e si sta per laureare in Filologia Moderna all’Università della Tuscia con una tesi intitolata Il piacere della grande bellezza . Deiana dimostra, con un lavoro di comparazione sui testi de Il piacere e de La grande bellezza , che Sorrentino ha letto e riletto – molto attentamente – Il piacere di Gabriele d’Annunzio. Gli echi di questa lettura si sentono, si vedono e si leggono nel film, senza possibilità di controbattere su generiche ispirazioni comuni. Del resto c’è una forte presenza di d’Annunzio anche nel romanzo di Sorrentino Hanno tutti ragione , che fu un preambolo per la sceneggiatura del film.
Il romanzo del Vate è uno dei capisaldi della letteratura europea degli ultimi secoli, e che eserciti ancora fascino d’attualità è dimostrato dalla copertina della nuova edizione negli Oscar Mondadori: un giovane a torso nudo, bendato in stile sadomaso, con un chiarissimo riferimento a 50 sfumature di grigio . La copertina ha suscitato lo sdegno di dannunzisti, dannunziani, dannunziofili e dannunziomani, pronti a una marcia su Segrate. Invano ho cercato di placarli commentando che Il piacere continuerà a essere letto quando delle 50 sfumature non rimarrà neppure il grigio.
Scritto da d’Annunzio a 25 anni, nel 1888, Il piacere rilanciò la letteratura italiana con un successo strepitoso sottolineato dalle lodi di Proust, Joyce, Hofmannsthal; La grande bellezza – mutatis mutandis – ha riscosso uguale successo planetario, con il premio Oscar di Hollywood. Merito degli autori e dei due protagonisti, lo Sperelli di d’Annunzio e il Gambardella di Sorrentino. Li unisce quasi tutto: Gambardella non è altri che Sperelli da vecchio e viceversa, un secolo dopo, in un mondo e in una Roma trasformati dall’appiattimento culturale, sociale, economico. Vediamoli in questa prospettiva.
Entrambi sono dandy, e i rispettivi autori raccontano la diversa decadenza in cui si muovono. Sono scrittori, letterati, e ritengono che le loro opere debbano essere riservate a pochi. Entrambi sono delusi dalla fine di un grande amore, e il loro precipitare nel «vortice della mondanità» nasce da quella delusione. Desiderano ritornare al primo amore ma, essendo impossibile, si lasciano andare a vacuità e a storie prive di sentimento. Persino nel nome – Elena e Elisa – le due ragazze hanno un’assonanza, simile a quella un po’ ridicola che unisce il cognome Gambardella al cognome originario di d’Annunzio, Rapagnetta. Entrambi vengono dal sud e si affermano a Roma. La biografia giovanile di Gambardella (il monologo di Jep sul lungotevere: «Quando arrivai a Roma…») ricorda proprio d’Annunzio nel suo arrivo a Roma da ragazzo.
Deiana mette in parallelo tutte le parti in cui Sorrentino e d’Annunzio descrivono il concetto di «mondanità», termine frequente e centrale sia nel romanzo sia nella sceneggiatura. Lo stesso avviene per la narrazione delle feste, e per le discussioni che si intavolano in quelle occasioni. Le descrizioni minuziose degli invitati sono un altro piano di somiglianza, che si conclude in un disgusto. Sperelli lo prova alla festa in cui gli viene continuamente ripetuto: «Love me tonight Andrew». Gambardella fa lo stesso, più cinicamente com’è nella sua natura, definendo i suoi invitati: «’Sta fauna». Aspetto identico è la necessità della nobiltà romana di risultare a tutti i costi colta. Quindi ecco che tra un trenino e l’altro si parli di Proust o della scena jazz etiope; Sperelli dispende motti in latino, perché «il latino va di moda».
C’è poi, marchiana, l’identica ritualità nel vestirsi. Basti ricordare la celebre descrizione che fa d’Annunzio del vestibolo di Sperelli e quel che dice sulla Cronaca bizantina riguardo alla «firma» del sarto. Ci ricorda, forse, il discorso che Jep fa in ascensore con il suo vicino di casa? Quanto a Roma (per entrambi gli autori attrice principale) i luoghi prediletti sono gli stessi. E sicuramente non perché siano i più rappresentativi o i più sputtanati, ma perché c’è un senso profondo – per d’Annunzio e per Sorrentino – nel descrivere e nel far muovere i loro personaggi proprio lì. La passeggiata che Servillo fa con la Ferilli è pressoché l’itinerario di Sperelli con Elena Muti. È clamorosa l’uguaglianza riguardo al buco della serratura del Palazzo dei Cavalieri di Malta, ma è indicativa anche la centralità di Villa Medici.
Un altro aspetto rivelatore è il rapporto con il mare come fonte di «nuova giovinezza». Lo dice Sperelli in convalescenza a Villa Schifanoja, lo ribadisce Sorrentino facendo immergere nel mare un Gambardella di 65 anni per farne uscire uno di 18. C’è poi la nevicata su Roma con la quale doveva concludersi, secondo sceneggiatura, La grande bellezza , invece di quella sbavatura ecclesiastica che sciupa il finale di Sorrentino. Anche il rapporto tra Sacro e Profano è gestito in modo identico, entrambi gli autori giocano con il fatto che negli ambienti elitari frequentati dai loro protagonisti ci sia sempre una presenza sacra. Si veda la tavolata con il cardinale che parla di ricette e al tempo stesso le poche parole della santa. Oppure Sperelli che utilizza parole evangeliche per descrivere faccende appartenenti alla sfera erotica (Rosa Linguatica, Vas Spirituale). La ritualità dei due protagonisti è identica, in ogni forma. E quando Sorrentino fa recitare a Verdone un pezzo di teatro, da dove lo prende? Da Le vergini delle rocce di d’Annunzio, unica citazione diretta.
È inutile proseguire, anche se – rivedendo il film con il romanzo alla mano – vi sono decine e centinaia di dettagli identici sperduti in descrizioni, arredi, scelta di location, nei dialoghi, nelle situazioni. Basti questa suggestione finale: Jep: «Io sono tre cose. Io sono un seduttore, io sono un bluff, io sono Jep Gambardella». Andrea Sperelli: «Io sono camaleontico, chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l’unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch’io mi rassegni. La mia legge è in una parola: NUNC». Jep: «Questa è la mia vita. Ed è niente». (da Il Giornale)
su Barbadillo leggi anche Riccardo Rosati che scrive de La Grande Bellezza