Fine dell’anno scolastico. Ecco l’estate assolata e oziosa e senza pensieri. Ma un gruppo di ragazzini scopre che dietro le atroci uccisioni avvenute nei mesi passati si cela un mostro dai mille volti, che si sveglia ogni ventisette anni per divorare pezzi di abitanti di Derry – preferibilmente bambini – e soprattutto infetta da sempre la vita della cittadina.
It, così lo chiamano i ragazzini, assume le forme dei loro peggiori incubi, ma il suo marchio è una maschera da clown (buoni… il libro risale al 1985 e Prodi non era ancora arrivato in politica!). Riescono a ferirlo, ma dopo un altro ciclo di sonno ultraventennale nelle fogne dove si nasconde, torna, chiedendo un nuovo tributo di sangue: allora gli stessi ragazzini, diventati adulti, abbandonano famiglia e lavoro per mantener fede alla vecchia promessa e finalmente sconfiggere It…
La storia, in verità, non è raccontata in maniera così lineare, anzi è un continuo accavallarsi di flash back, un magistrale incastrarsi di tessere di un puzzle extratemporale, dove tutto torna e così il passato può spiegare il presente durante il presente stesso. Milleduecentotrentotto pagine, un mattone grosso così che rileggo periodicamente. Perché? Intanto perché mi piace tanto e già tanto basta. È scritto talmente bene che – come accade di rado – riesce a far dimenticare che stai leggendo: è la storia, ragazzi!
Non quei litri d’inchiostro con cui si sbrodolano tanti scrittori che usano la forma romanzo per farci la morale (o, va da sé, l’antimorale) e ci ammanniscono quei tomi illeggibili che piacciono tanto ai Re-censori. King, invece, è uno di quelli che quando apri il libro sali in carrozza e scendi solo quando hai finito l’ultima riga… quando alzi gli occhi dalla pagina e, per qualche meraviglioso istante, ti guardi attorno senza capire dove sei. Sono tanti i romanzi capaci di questa magia. Ce ne sono alcuni che, ovviamente ben più di questo, toccano corde forse più sensibili… per citarne uno, Il romanzo di Excalibur, di Bernard Cornwell, storia alternativa e straordinaria della magnifica vicenda di Re Artù.
Eppure è It che porto ogni estate in vacanza. Come mai? È possibile entusiasmarsi per un semplice romanzo dell’orrore? La mia risposta ovviamente è sì, perché non ho preconcetti da Re-censore e, non essendo tale, non mi eccito davanti all’incomprensibilità, non provo godimento annoiandomi, non mi tafazzo con la contorsione fine a se stessa. E poi, semplice questo romanzo non lo è affatto: parlare di genere per una storia così complessa e piena non è solo limitante, è assolutamente improprio. Perché l’ambiente dove si muovono Bill, Ben, Beverly, Stan, Mike, Eddie e Richie (il club dei “perdenti”, protagonisti di It – Sperling & Kupfer) è la dolce provincia americana, tra skate, pop corn, cinema e viali alberati…
E King riesce a farci sognare quei luoghi, quel vivere, cogliendo ogni piccolo dettaglio che accomuna a tutte le latitudini la spensieratezza di quell’età. Ma poi… Poi, dietro il sipario di un’America dorata, ecco svelarsi mille piccoli mali quotidiani che infangano quell’oro… E il bello è che non trasformano il sogno in un incubo vischioso: la bellezza resta, ma ora sai che non tutto è come appare… Così il Male maiuscolo – in questo caso It – si accomoda tra mille piccoli mali annidati nelle ombre della luce quotidiana. L’America ha sempre incarnato il mito della Terra Promessa e, in effetti, ai pionieri e agli emigranti arrivati fin lì ha restituito con gli interessi tutti i premi per la fatica e i sacrifici gettati nell’impresa. Una terra che ha permesso il riscatto da una vita di stenti a milioni di persone, partite sconfitte e arrivate ad esser capaci – là dove «chi vale riesce a farsi valere» – di realizzare un sogno ritenuto impossibile. Questo mito è stato celebrato con film e canzoni ed è diventato il Sogno Americano. Ma è proprio questo che rende infinitamente più spaventosi gli angoli bui che, forse, altrove sarebbero meno oscuri, magari solo per minor contrasto.
Perché scoprire vicende come Waco, Columbine, o Abu Ghraib con una marine che si fa fotografare mentre tortura un gruppo di iracheni nudi e un’altra mentre sorride felice davanti al cadavere martoriato di un prigioniero come se fosse la reginetta del liceo… imbattersi nell’orrore per le strade del paradiso… ecco, è quello il vero shock.
Non è altrettanto scioccante quando altrettanti orrori vengono scoperti, chessò… in Cina o nell’Africa più remota, perché lì è solo inferno, mentre il vero orrore, come avverte Antonio Faeti, è quando «si scopre che l’inferno e il paradiso appartengono allo stesso condominio».
Lo sapevano bene i raccontafiabe antichi, che avevano nascosto la prigione della strega dentro una casetta di marzapane. E lo sa bene Stephen King, che ha scelto di raccontare l’orrore più spaventoso… quello che ti aggredisce proprio dove ti senti più sicuro, dove mai dovrebbe essere possibile trovare altro che pace e serenità. Nessuno come King è in grado di raccontare la dimensione aurea della giovinezza, ma accanto ad ogni gruppo di amici che si diverte, c’è sempre un gruppo di bulli, grossi, stupidi e violenti, che cerca di render loro la vita impossibile. Ma è solo il sintomo di una dissonanza più profonda…
Perché proprio dietro l’angolo del viale alberato, dove la domenica si alza il profumo di salsicce che sfrigolano nel barbecue, rigirate da soddisfatti padri di famiglia (circondati da sorridenti figli di famiglia)… proprio dietro quelle casette di legno linde e pulite… è proprio là che il sorriso bonaccione e un po’ stupido di Ralph Malph («Sunday, Monday, Happy Days…») si trasforma nel ghigno del Mostro di Milwakee (e guardacaso il famoso telefilm e le sfortunate vittime del cannibale abitavano la stessa cittadina), o semplicemente nello sguardo assente del marito che pesta a sangue la moglie e poi si siede davanti alla tv, con una birra in mano, per godersi la finale del Super Bowl.
Dietro quella del Sogno, c’è sempre un’altra America, nascosta dallo sfavillio delle luci, degradata e degradante e irrimediabilmente perduta. Spensieratezza e disperazione, opportunità e orrore, libertà e ottusità feroce: facce opposte di una stessa medaglia che Stephen King riesce a mostrarci nella maniera più vera, magnifica e terribile. Faeti, nel suo La casa sull’albero (Einaudi Ragazzi), scopre illustri precedenti nell’analisi kinghiana, soprattutto nei giovani intellettuali fascisti degli anni Trenta, da Berto Ricci a Emilio Cecchi, che individuarono la “metà oscura” del sogno americano. In particolare, l’americanista Cecchi «anticipa King, lo prevede, scandisce le sue stesse allucinazioni, mentre racconta un linciaggio». E ditemi se non è vero che questa pagina estratta dal diario di viaggio di Cecchi sembra presa pari pari da un romanzo del re dell’orrore: «Lo portarono in un bosco, a circa quattro miglia da Greenwood; lo evirarono e gli fecero mangiare quella carne. Lo tagliuzzarono sul ventre e nel costato; e lo bruciarono da capo a piedi con ferri roventi. Ogni tanto lo appiccavano a una fune, e ce lo lasciavano finché non fosse quasi strozzato, e allora lo calavano e lo ricominciavano a straziare. Gli asportarono tre dita di una mano, due d’un’altra, e alcune dita dei piedi. Finché decisero di finirlo. Legato il cadavere dietro a un’automobile, lo trascinarono davanti alla casa dei Cannidy. Uscì dalla casa una donna, e cacciò un coltello da macellaio nel petto del morto. Chi pigliava a calci il cadavere; chi lo schiacciava, passandoci sopra con la propria automobile; e i ragazzini lo punzecchiavano con i bastoni. Le dita, messe nell’alcole, furono custodite come cimeli preziosi. Un tale divise un dito per darne a un amico, in segno di specialissimo favore. La radio di Dothan, Alabama, aveva convocato la folla per assistere al linciaggio».
Agghiacciante, vero? Ne accadono ancora oggi, in altri luoghi del pianeta, di queste vicende. Ma quando avvengono in un Paese che si vuole baluardo della civiltà, è ovvio che l’orrore si moltiplica all’infinito, porta un senso di insicurezza, di pericolo continuo: neanche qui sono in salvo! Nelle sue storie, King avverte il lettore che deve diffidare delle casette di marzapane. E lo fa da sempre, fin dal primo romanzo, Carrie, che raccontava l’orrore che si può annidare dietro il sorriso angelico di una liceale, o dentro il cervello incrinato di una bigotta. I grandi Re-censori, autoreferenziali, ignoranti e provinciali, avevano sempre snobbato il re dell’orrore (avendo letto solo i titoli dei film tratti dai suoi racconti) fino a che non è arrivato il contrordine-compagni dai loro “illuminati” compari d’Oltreoceano.
È avvenuto in occasione dell’uscita di Cuori in Atlantide, che univa romanzi brevi e racconti lunghi legati da una serie di protagonisti dagli anni Sessanta ad oggi: finalmente King parlava esplicitamente di questioni generazionali comuni a tanti americani, dal Vietnam alle speranze di rivoluzione dei Figli dei fiori. Lo faceva da par suo, cioè splendidamente, conservando però intatti i Grandi Temi: l’amicizia, l’amore e il coraggio impavido. Ma sui grandi quotidiani ci fu un’esplosione di peana su un King finalmente uscito dalla palude del genere horror, finalmente cresciuto, finalmente approdato alla letteratura seria… e bla e bla e bla… Fino ad allora le recensioni su di lui le avevano sempre affidate a poveri collaboratori. Bastò il contrordine-compagni per scatenare i mejo tacchi a sdraiarsi su paginoni interi. Fecero ovviamente una figura barbina, non arrivando nemmeno ad accorgersi che il primo capitolo di Cuori in Atlantide faceva parte dei ciclo più famoso del Nostro, quello della Torre Nera.
In verità, King ha sempre conosciuto la metà oscura della sua nazione, quella stessa America amara di cui parlavano Emilio Cecchi e gli altri giovani intellettuali degli anni Trenta che vedevano come, da questo punto di vista, «la civiltà americana non stava affatto dalla parte della novità, di una modernità esuberante e vitale, ma sul piano inclinato di una decadenza che procedeva di pari passo con i trionfi della scienza e i ritrovati della tecnica». Certo, nella vicenda di It di orrore canonico ce n’è a bizzeffe, ma c’è talmente tanto altro che mostri e paure sono soltanto il contorno saporito di un pranzo ricchissimo. L’amicizia, l’amore e il coraggio impavido sono gli elementi cardine di questa storia e rappresentano una formula immortale che, fin dall’antica Grecia, ha fatto la fortuna di poeti e cantori d’ogni epoca. King padroneggia questa formula da grande maestro e, con It, innesta l’orrore ignoto in quell’età di passaggio tra infanzia e adolescenza, già carica di misteri per l’incombere di un mondo – quello adulto – nuovo e sconosciuto, che spaura e affascina.
Quando Bill e i suoi amici tornano a Derry per la battaglia finale contro il mostro che infesta la città – che è la città -, perdono pezzi strada facendo e rischiano di soccombere proprio perché, diventati adulti, non credono più alla possibilità di concepire qualcosa di così misterioso e magico. Riusciranno a sconfiggere It in un solo modo: uscendo dalla palude dello scetticismo e ritrovando la forza di credere. Perché, come avverte lo stesso King nella dedica, «la verità di questo romanzo è semplice: la magia esiste». La magia potentissima del credere: naturale per i bambini, arduo per gli adulti, impossibile per quelli che non hanno il coraggio di lasciare briglia sciolta al puledro che scalpita dentro il recinto di una maturità che troppe volte è prigione.