Sul finire degli anni ’70 l’urgenza di fare tabula rasa e di agevolare un cambio d’armadio collettivo si fece affare imprescindibile. Ad un certo punto pantaloni a zampa d’elefante, chincaglierie etniche, barbe incolte e colori psichedelici divennero improvvisamente obsoleti. Un’intera mitologia generazionale stava per essere spazzata via, confinata tutt’al più in velleitarie riserve di coerenza estrema: i frikkettoni. Si ebbe a quel tempo la chiara percezione del vecchio: i virtuosismi della musica progressive ed il folk cantautorale divennero noiose autocelebrazioni, il comunitarismo hippy si fece utopia ludica per cannaioli storditi – cambiarono infatti le droghe sul mercato – mutarono capigliature, gesti, abitudini ed ascolti. Ai sogni lisergici campestri si cominciò a preferire un affilato livore bianco e nero, molto neon metropolitano, molto individualista, tendenza Berlino, quartiere Pankow. La nuova estetica punk, debitrice sia del collage dadaista che delle posture ribelli – tipo James Dean in acido o David Bowie, elegantemente cocainomane, in Wir Kinder vom Bahnhof Zoo – rappresentò sotto tutti i punti di vista un mutamento radicale, destinato a durare nel tempo e a contenere ben più dello stereotipo borchiato con cresta multicolor ed abiti a brandelli. Al macero Marx quindi, tornarono buoni l’anarchismo radicale di Stirner ed il situazionismo di Debord.
Con l’avvento della nuova cultura musicale – e con tutto quello che dalle nostre parti verrà poi definito genericamente suono anni ’80, dagli industriali Einsturzende Neubauten ai commerciali Duran Duran – si imposero riferimenti estetici dapprima minimali, robotici, austeri, essenziali, poi a pari passo con la crescente frivolezza derivata dall’ottimismo economico, sempre più ridondanti, bizzarri, barocchi, esotici. Dal punto di vista musicale diventa ora interessante fare della semiotica frugando tra i vinili, cercando di comprendere attraverso le copertine degli album quello che accadde dietro il velo di glamour, dietro i reazionari cascami che caratterizzarono la scena “alternativa” New Wave, nel momento preciso in cui una sottocultura di nicchia finì per trasformarsi irreparabilmente in moda. Dall’abolizione della chitarra elettrica solista in favore dell’elettronica sintetica e poi dei campionamenti, a quello che portò il rock viscerale di matrice blues a generare, attraverso un percorso tortuoso che passa per la New York dei Velvet Underground, tocca casa Kraftwerk a Düsseldorf e confluisce naturalmente nel degrado metropolitano di Manchester, la sua antitesi artificiale.
La silhouette di un floppy disk ed una foglia secca fluttuante nel vuoto, emblemi della modernità e dell’immanenza impressi sulle copertine dei dischi di New Order, ovvero la “pop band con un passato oscuro” come fu definita dal critico musicale Paul Morley. L’antitesi estetica perfetta per trattare di Peter Saville e della sua filosofia della sottrazione. Ritratto seppur marginalmente nei recenti film Control e 24 Hours Party Peolple, riguardanti l’epopea della città inglese (post) industriale per eccellenza, come un esteta sbadato e bohémien, il designer è noto ai più per aver curato la grafica di noti marchi di moda internazionali, nonché per aver destrutturato con un certo sadismo il povero coccodrillo Lacoste e ridisegnato, con più cauto patriottismo, l’immacolata divisa ufficiale della nazionale inglese di calcio. Dei successi professionali conseguiti da Saville tuttavia qui importa poco, visto che la sua fama resta strettamente vincolata all’iconografia post-punk delle origini di carriera, a quell’avventura surreale che dotò la storica label mancuniana Factory Records di un caratteristico codice estetico situazionista, laddove non sempre a numero d’uscita corrispondeva oggetto tangibile acquistabile. Post-moderno ben prima della codificazione del postmodernismo, Saville ha intrapreso un percorso affascinante e coerente, al crocevia tra riferimenti colti e sensibilità popolare, tra underground e mainstream, tra negazione e apologia, tergiversando amabilmente attorno all’oggetto e alla sua pubblica rappresentazione. Un tragitto nato dal basso, dalla periferia post industriale inglese, regolato secondo i dettami del “do it yourself”, ma decisamente più raffinato nei riferimenti rispetto al codice grezzo e suburbano prediletto dai coevi punk.
Ben più di altri designer dell’epoca, Saville seppe sintetizzare con naturale eleganza la radicale propensione innovativa di un decennio, circoscrivibile dal 1979, anno della nera veste minimale di Unknown Pleasures dei Joy Division al 1989, quando in pieno fermento Acid House uscì Technique di New Order. Quest’ultimo fu un disco che, pure graficamente, ribaltava gli stilemi gotici e crepuscolari degli esordi attraverso una fedeltà etica – il putto cimiteriale che riprende lo scabro scenario di Closer, epitaffio Joy Division – trasformando con un’alterazione cromatica l’immaginario esistenzialista allora vigente in altro, in psichedelica evanescenza, in accattivante superficialità tecnicolor, in fuga estiva verso il mare di Ibiza, in sballo e pasticche. Nel mezzo copertine e poster che, ignorando coraggiosamente i postulati del profitto e della funzione promozionale, ma tenendo bene a mente la lezione di Andy Warhol, evitavano accuratamente di menzionare titolo del disco e nome della band, finendo spesso per costare economicamente all’etichetta discografica ben più di quanto la logica commerciale avrebbe consigliato: cover in carta vetrata o in carta velina, tagli ultraprecisi, formati inconsueti, scelta di materiali pregiati, poetica costruttivista applicata all’oggetto seriale, ma soprattutto un’iconografia severa che andava a pescare con acume nel suprematismo russo e nel futurismo italiano, contestualizzando così l’avanguardia dei primi del ‘900 attraverso il filtro dell’onnivora Pop Culture. Emblematiche le scelte imposte da Saville per le cover art di due noti singoli di New Order, Blue Monday del 1983 e True Faith del 1987. Nel primo caso il connubio packaging-canzone si impone come indivisibile oggetto di design; i tagli sull’involucro che fanno del floppy disc un segno iconico del tempo e la combinazione di colori elaborata sulla base di un codice, una sorta di alfabeto cromatico in grado di celare ambiguamente i riferimenti d’obbligo, conferiscono all’anonima copertina lo status di “classico”, tanto quanto l’agglomerato sonoro contenuto. Nel secondo caso, ancora più enigmatico, solo una foglia gialla, sospesa nel blu dello sfondo, basta per raccontare tutti i misteri di un sublime tradimento pop, quello che portò un’intera generazione della working class inglese, senza particolari talenti, dalla coerenza anarchica delle cantine alla fama mondiale degli stadi, dall’opposizione al “sistema” ai playback in tv. Ecco, Peter Saville è proprio la figura – dietro le quinte – che seppe rendere evidente questa schizofrenia. Prendendosene cura.