In principio fu Torino, cinquant’anni fa. Mercoledì 23 giugno 1965, stadio Comunale: i padroni di casa della Juventus disputano la finale di Coppa delle Fiere, antenata della Uefa. Davanti a loro gli ungheresi del Ferencvaros trascinati da Florian Albert. La Juve è quella operaia di Heriberto Herrera e di un Omar Sivori al canto del cigno. Heriberto detesta il Cabezón e mette in chiaro che nel suo movimiento, antesignano del calcio totale all’olandese, perfino uno come lui “è uguale a Coramini”, cioè il Padoin dell’epoca.
Ci crede così tanto da lasciare in panchina il genio argentino nell’ultima gara. La Juve gioca male e cade davanti al suo pubblico grazie alla rete di Mate Fenyvesi, ala sinistra e medico veterinario. È insieme il primo trionfo per una squadra dell’Est e l’ultimo valzer per la grande scuola danubiana, mai più risorta a quei fasti. Per la Fidanzata d’Italia, la prima di una lunga serie di amarezze in notturna sui campi europei.
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Già, perché la fama da primi della classe, da vincenti antipatici, quella che la Juve si porta appresso da sempre in patria, è più che compensata dai manrovesci del destino al di là dei confini nazionali, dove i Gastone della penisola si trasfigurano nei Paperoga del continente. Si ha un bel ricordare che i torinesi sono gli unici ad aver vinto almeno una volta tutte le competizioni ufficiali della Uefa. Resta il fatto che quella dei bianconeri in Europa è soprattutto un’epica della sconfitta, dove anche il Fato gioca una bella parte.
Un esempio per tutti: Leeds, giovedì 3 giugno 1971. Ultima edizione della Coppa Fiere, in due atti: si parte dal 2-2 dell’andata a Torino, giocata col lutto al braccio per la morte di Armando Picchi, artefice della rifondazione bianconera in panchina. In Inghilterra Anastasi annulla il vantaggio iniziale dei bianchi, finisce 1-1. La Juventus, imbattuta nella competizione, vede sfumare la vittoria per la regola del gol fuori casa, approvata dalla Uefa proprio in quella stagione.
La prima finale di Coppa Campioni, raggiunta nel 1973, si disputa a Belgrado contro la grande Ajax di Cruijff: uno scontro impari coi profeti del calcio totale. La Juve si chiude in ritiro per otto giorni, mentre i capelloni olandesi giungono alla vigilia con mogli e fidanzate al seguito. Sul campo l’Ajax va in gol con Rep già al quinto minuto ma poi, rinnegando il credo offensivo, alza le barricate fino al fischio finale. È comunque la fine di un ciclo: Cruijff se ne va e l’anno dopo i lancieri escono addirittura al primo turno. Intanto i bianconeri sostituiscono i campioni nella sfida di coppa Intercontinentale perdendo pure quella per 1-0, contro gli argentini dell’Indipendiente.
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Ben altre premesse quelle di dieci anni dopo: nell’arena di Atene scendono sei dei campioni del mondo di Spagna 1982, più Bettega, Platini e Boniek. Sulla carta una Juve invincibile, forse la migliore di sempre, che nel frattempo ha imparato anche a vincere in Europa, conquistando una storica coppa Uefa nel 1977 a spese dell’Athletic Bilbao. Coi tedeschi dell’Amburgo va in scena lo stesso copione di Belgrado: un gran gol di Magath nei primissimi minuti gela il sangue agli eroi di Madrid e li rende incapaci di reagire.
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Platini e compagni si consolano con il trionfo in Coppa Coppe l’anno seguente, firmato da Vignola e Boniek a Basilea contro il Porto. Poi arriva la sfida di Coppa Campioni col Liverpool, ma questa volta non è un assalto al cielo, è un viaggio nell’abisso: la notte di Bruxelles, 29 maggio 1985, vede uno stadio trasformarsi in sepolcro, una partita surreale decisa da un rigore che non c’è e una scia di dolore, di smarrimento, di vergogna. Niente da ricordare, oltre ad una tragedia assurda.
Passano gli anni, tramonta l’astro di Platini e sorge quello di van Basten. Con Sacchi e Capello il Milan torna a regnare in Europa, mentre la Juve di Zoff e Trapattoni, pur stentando in campionato, porta a casa due Coppe Uefa. La Signora riemerge nel 1994, anno fatidico nella storia recente d’Italia: nuova dirigenza, nuova guida tecnica, nuovi giocatori. Marcello Lippi plasma un organico capace di imporsi per stile di gioco e fame di successi: “non guardate la tattica o la tecnica, quella ce l’abbiamo anche noi, voi dovete imparare ad avere quella voglia di vincere” spiega sir Alex Ferguson ai suoi Diavoli Rossi.
Quella Juventus volitiva e tenace raggiunge tre finali consecutive di Champions League, un record mai più eguagliato da allora (cui si aggiunge la finale Uefa del 1995, persa nel doppio confronto col Parma). A Roma si consuma sull’Ajax di Van Gaal la vendetta di Belgrado: Ravanelli va in gol con un diagonale velenosissimo, risponde Litmanen. Ai rigori decide la freddezza di Jugovic e per il popolo bianconero arriva finalmente la sua festa a lungo attesa.
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Nemmeno questo basta però ad esorcizzare il mal di coppa, ripresentatosi puntuale l’anno successivo: il Borussia Dortmund è un avversario conosciuto, già battuto in tre diverse occasioni compresa la finale Uefa del 1993. All’Olympiastadion di Monaco, atto conclusivo della Champions League 1997, la nemesi giunge dai piedi dell’ex laziale Karl-Heinz Riedle, autore di una doppietta fulminante in cinque minuti. Nella ripresa Del Piero trova un assolo sublime, di tacco. Un gol bello quanto inutile, perché di lì a poco il pallonetto di Ricken ristabilisce le distanze. Tre a uno.
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Nuova stagione, stessi rimpianti: la rivincita di Monaco 1997 si gioca ad Amsterdam, al cospetto del Real Madrid. La regina d’Europa decaduta va a caccia del trono 32 anni dopo l’ultimo alloro e lo conquista grazie ad un gol di Predrag Mijatovic. In fuorigioco, ma ormai non lo ricordano nemmeno gli juventini, perché la recriminazione non fa parte del DNA bianconero.
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Il primo ciclo di Lippi termina con le dimissioni del tecnico viareggino. Segue l’interregno di Ancelotti, una giostra di alti e bassi senza risultati, dalla semifinale dell’Old Trafford all’umiliazione del 4-0 in casa del Celta Vigo. Lippi riprende il discorso interrotto tre anni dopo riportando a Torino lo scudetto, quello del 5 maggio. È una Juve meno affamata ma più affermata. Con gente come Buffon, Nedved e Trezeguet tutto sembra possibile, anche il ritorno sul tetto d’Europa.
Solo il Manchester di Ferguson rallenta una cavalcata che pare trionfale. Nella fase ad eliminazione i bianconeri superano il doppio confronto col Barcellona, ai quarti, e col favoritissimo Real, in semifinale. L’ultima sfida è un inedito derby italiano tra i due club più blasonati, contro un Milan giunto a fari spenti fino al redde rationem dell’Old Trafford. Priva del trascinatore Nedved, squalificato, la Signora arriva come sempre intimorita all’appuntamento decisivo: dopo centoventi minuti le ginocchia si fanno molli, il dischetto tradisce Trezeguet, Zalayeta e Montero e premia gli occhi di tigre di Shevchenko.
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Cinque sconfitte in finale di Coppa Campioni, come il Benfica maledetto da Béla Guttmann. Questa sera la Juventus riparte da lì, contro un’avversaria che non potrebbe essere né più ostica né più diversa per storia e per mentalità di gioco. I precedenti, favorevoli agli italiani con quattro vittorie, due pareggi e due sconfitte, non contano niente. Questa non è una partita, è una finale. E i catalani ci arrivano per la quarta volta nelle ultime dieci edizioni: dal 2006, ogni volta che hanno raggiunto la semifinale hanno vinto.
Tra i ragazzi di Allegri e la coppa dalle grandi orecchie c’è di mezzo il tridente dei marziani, Messi-Suarez-Neymar, centoventi gol in una stagione. Mai una finale fu più sbilanciata in sfavore dei bianconeri, ma giocare una sfida del genere da campioni in pectore è un peso e nessuno, in Europa, lo sa meglio della Juventus. Scalare questa montagna non è impossibile, ma per arrivarci la Juve dovrà prima liberarsi dei suoi demoni.