Giampiero Mughini, scrittore onesto e libertario, ha polemizzato garbatamente con Aldo Cazzullo, autore del libro “Possa il mio sangue servire. Uomini e donne della Resistenza”. La tesi di Mughini, intellettuale coraggioso passato da sinistra a posizioni di coraggioso revisionismo, poggia su due capisaldi: l’antifascismo non è un dogma e tra il 1943 3 il 1945 in Italia non ci fu la resistenza ma una tragica guerra civile (continuata a bassa intensità fino agli anni ottanta). Per questo presentiamo l’intera lettera di Mughini come contributo al dibattito sulla libertà d’opinione, mai come in questi giorni messa in continua discussione in Italia.
ps Giampiero Mughini è l’intellettuale libero che in anni in cui vigeva la conventio ad escludendum verso una intera area di italiani perbene, propose sulla Rai la trasmissione “Nero è bello”, originale e riuscito esperimento volto a raccontare l’arcipelago dei giovani missini.
“Caro Dago,
permettimi di rivolgermi al mio amico Aldo Cazzullo, di cui ho appena finito di leggere le possenti 400 pagine edite da Rizzoli e dedicate al “sangue” di chi tra settembre 1943 e aprile 1945 insorse contro la tragica combutta nazifascista. Gli anni dei massacri compiuti da SS ma talvolta anche da militi italiani che portavano il marchio di Salò. Gli anni in cui ragazzi italiani di 16 e 17 anni mettevano il cappio al collo di “banditi” italiani che stavano per essere impiccati. Gli anni in cui sacerdoti, donne, bambini, ebrei vennero massacrati perché colpevoli di avere dato un pane o un rifugio a quelli che avevano detto di no a Salò. Gli anni della macelleria di soldati e ufficiali italiani a Cefalonia, dell’orrore di Marzabotto, delle Cave Ardeatine dove li misero in fila a ucciderli a cinque alla volta.
Gli anni del sacrificio del partigiano di Giustizia e libertà Willy Jervis (che scrisse alla moglie con una punta di spillo la sua ultima lettera prima di essere fucilato), della trentasettenne fiorentina Anna Maria Enriques Agnoletti che i nazi acciuffarono il 12 maggio 1944 senza che lei avesse mai sparato un colpo e che torturarono per una settimana prima di ucciderla con un colpo di pistola al volto, di quel Sabato Martelli Castaldi (nome di battaglia “Tevere”) che a 36 anni era stato il più giovane generale di brigata aerea d’Italia e che nel settembre 1943 sparò contro i tedeschi a Porta San Paolo a Roma per poi entrare nella Resistenza e che i nazi torturarono per 67 giorni quando lo presero e prima di ucciderlo alle Ardeatine. E mille altri ancora.
E con tutto questo a capire l’orrore e la dinamica di quegli anni, confesso che io preferisco usare il termine “guerra civile” che non il termine “Resistenza”, e forse in questo mi discosto dalla sensibilità generazionale e intellettuale di Aldo Cazzullo. Uno che da piemontese i luoghi e i nomi della Resistenza li ha avuti dirimpetto da ragazzo. Nella mia adolescenza catanese dei primi anni Cinquanta, di fascismo e antifascismo c’erano pochissime tracce se non quel podestà che l’ex fascista Vitaliano Brancati aveva sbeffeggiato in un suo celeberrimo romanzo.
A me l’antifascismo venne dai libri, da un piccolo libro feltrinelliano dove si raccontava la vicenda e la morte del gappista comunista Dante Di Nanni, dalla lettura delle lettere dei condannati a morte della Resistenza. Certo è che la prima volta che feci una filippica in pubblico, ero di un “antifascismo” totale e sistematico e minaccioso anche. Credo fosse il 1960, mese più mese meno. Ne ebbi dai miei compagni di generazione un lunghissimo applauso di approvazione.
Resistenza come marketing intellettuale
Credo sia stata la prima e ultima volta. Da allora in poi cominciò tra me e loro un bisticcio il cui caposaldo era il dogma dell’ “antifascismo” come di un chiavistello che apre tutte le porte, che ti aiuta e ti solleva moralmente nel presente, con quella loro nenia “Resistenza ora e sempre”, un marketing intellettuale ostinato e stucchevole quanto nessun altro.
Aldo, comprendimi. Io non cambierei una virgola di quel che tu scrivi dei morti fucilati, dei torturati, degli ebrei braccati, delle prigioniere umiliate e violate, dei bambini su cui tirare al bersaglio. Solo che stiamo parlando di un tempo remotissimo in cui nulla di nulla assomiglia al presente. Di più, in cui nulla di nulla può essere giocato nel presente. Che vuoi giocare nel presente del fatto che i nazi attaccarono la Russia comunista e che gli angloamericani si allearono con Stalin a combattere le orde nazi e mandarono camion e altro ai difensori di Stalingrado, e fecero benissimo, e poi accadde che nel loro contrattacco i russi si papparono il cuore dell’Europa e la tragedia del comunismo reale è durata quattro volte di più del regime hitleriano? Sono cose che sai benissimo.
Guerra civile? Sì, credo di sì. Sei tu che scrivi che i sacerdoti ammazzati dai fascisti furono 120 e quelli ammazzati da partigiani 100. Se non è guerra civile questa, né più né meno che in Spagna tra 1936 e 1939. I combattenti dell’una e dell’altra parte sono per questo equivalenti, hanno la stessa valenza morale? Non sta in cielo né in terra. Quelli che andarono a combattere dalla parte di Salò avevano torto marcio.
I fascisti repubblicani – come Mazzantini e Sironi – fanno parte della storia d’Italia
Solo che erano centinaia e centinaia di migliaia – il mio amico Carlo Mazzantini uno di loro –, erano italiani che facevano parte della storia d’Italia e che vanno raccontati per bene. Italiani come quel Mario Sironi di cui racconti e che venne intercettato dal partigiano Gianni Rodari a un posto di blocco (mi pare di ricordare che lo stesso Rodari, di cui ero collega al “Paese Sera”, mi avesse raccontato l’episodio), e Sironi gli diede la sua carta di identità, e Rodari gli chiese se lui fosse il pittore delle periferie urbane milanesi e poi lo lasciò passare. Sì, una guerra civile in cui ciascuno risponde di quello che ha fatto.
La farsa dell’antifascismo dopo il 1945
La tragedia della mia generazione, caro Aldo, è che in molti ci provarono a bissare sotto forma di tragica farsa la tragedia del 1943-1945. Gli uni e gli altri ricominciarono a braccarsi. E su un giornale dell’estrema sinistra venne pubblicato il brano del libro di Giovanni Pesce (il comandante dei Gap di Torino e di Milano) in cui raccontava com’era andato incontro a un criminale fascista e lo aveva ucciso per strada. Quel giornale ripubblicò il brano di Pesce all’indomani dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi. A dire come vanno fatte le cose. O no?
Caro Aldo, ci ho messo anni e anni a contrappormi frontalmente al dogma dell’antifascismo duro e puro. Tu hai pubblicato il tuo libro-intervista con Edgardo Sogno nel 2000. Quando io incontrai Sogno e ne lodai l’eroico combattente che era stato, e questo quindici anni prima, pronunciare laudativamente il nome di Sogno era come bestemmiare in pubblico. Tu pubblichi quella meravigliosa lettera di un condannato a morte della Resistenza in cui si rivolge a un tenente di Salò che in tribunale aveva testimoniato a suo favore e lo ringrazia della sua lealtà.
Ebbene quella lettera io l’avevo messa nel “Compagni addio” del 1987, il libro per cui in molti mi tolsero il saluto. E quando in quello stesso anno lasciai “l’Europeo” in cui avevo lavorato 9 anni, avevo appena scritto un articolo su un libro che raccontava quello che i soldati dell’Armata Rossa avevano fatto alle popolazioni civili tedesche negli ultimi mesi della guerra. L’articolo era destinato alla sezione culturale del settimanale, il cui capo servizio era allora un comunista. L’articolo non venne mai pubblicato.
Erano questi i tempi, o per lo meno sono stati i miei tempi. Spero di non averti annoiato, caro Aldo. Spero di leggere ancora tanti tuoi libri. Lo dico con invidia. Io la mia cantina l’ho purtroppo esaurita”.