Se non ci fosse più Sky o le altre tv a pagamento, se non ci fosse più il web, le app per gli smartphone. Se non ci fosse la diretta streaming e se non ci fossero gli aggiornamenti in tempo reale, da Televideo fino ai siti weblocali. Se non ci fosse tutto questo, se non ci fosse più tutto questo, come potrei seguire la mia squadra di calcio quando gioca fuori casa? Di fronte a tali dubbi, un tifoso quindicenne, ma anche un ventenne, o magari un cinquantenne smemorato, potrebbero andare in crisi.
E allora, per tranquillizzare tutti, vi diamo una notizia: se non ci fosse più tutto questo, se tra i tanti sacrifici da immolare sull’altare della crisi ci fosse anche quello del taglio dei new media, be’, state tranquilli, il calcio esisterebbe lo stesso. E, in qualche maniera, la partita dei nostri in trasferta troveremmo chi ce la racconta. Come prima. E forse meglio di adesso.
Perché è vero: il calcio è sempre vissuto di una dimensione reale e di una virtuale. Quella reale è facile da capire, c’entri dentro quando vai allo stadio e vedi la partita con i tuoi occhi. Quella virtuale invece è fatta dei racconti di chi la partita la vede (cameramen, fotografi, giornalisti) e dell’immaginazione di chi se la fa raccontare.
L’elogio della prosa di Gianni Brera, Beppe Viola e Gianni Minà
La seconda, la dimensione virtuale del calcio, è molto cambiata con gli anni: siamo passati dalle prose di Gianni Brera, Beppe Viola, Gianni Minà, alle telecronache standardizzate, agli sms, agli aggiornamenti matematici dell’1 a 0 ottenuto al 63′ con il 4-3-2-1, contro il 4-3-3.
Dalle foto in bianco e nero degli anni ’70 da sviluppare in camera oscura, ai video real time postati dagli I-Phone su Facebook. L’immaginazione ne risente. Forse ne risente anche il calcio, mai visto e raccontato come oggi, mai arido e omologato come oggi.
Se tutto l’ambaradan dei new media venisse meno, nella mia città torneremmo a riunirci la sera davanti alle vetrine del Club (che non ci sono più) per aspettare che qualcuno dal bar aggiorni il tabellone di cartone ricoperto di stoffa, spostando le targhette con i punti e i punteggi.
Se Internet si fulminasse, andremmo ancora sotto la redazione di Paese Sera ad ascoltare la cronaca dell’inviato al telefono, amplificata dagli altoparlanti a imbuto e a trepidare durante le attese tra una frase e un’altra, quando tra un cross e un colpo di testa trascorrevano interminabili secondi che ognuno riempiva con un’immaginazione che nessuna steadycam di Sky sarebbe capace di mandare in onda.
Ma non andremo né al Club, né sotto la redazione di Paese Sera: tutto questo non succederà più e non è giusto che succeda. Perché indietro non si torna e non si deve tornare.
Però sarebbe bello se – andando avanti – qualcuno bravo (e ce ne sono ancora) riscoprisse il gusto di raccontare il calcio e lo sport, che non son fatti solo di numeri e di schemi, che non sono solo cronaca gridata e non sono neanche storia, ma un insieme di storie che li rendono unici, come unica è la vita della quale lo sport è una privilegiata rappresentazione.
Perché, come sapevano anche i nostri nonni, ogni cosa – se la sai raccontare bene – diventa più bella di quello che realmente è. E una partita di calcio ripresa da dieci telecamere, non è la stessa cosa della narrazione di come si approccia la partita entrando allo stadio, con un panino in mano, o con un whiskey da bere.
Gianni Brera, ad esempio, dovendo fare la cronaca dei mondiali del 1978 in Argentina, attaccava la corrispondenza raccontando di un addetto all’entrata di uno stadio che lo bloccò per via di una boccetta di liquore portata a tracolla.
“Con esa no puede entrar señor”.
“Que es prohibido, el whisky o la botella?”, rispose Brera.
“Es lo mismo, señor” rispose l’addetto.
Brera lo guardò poi si bevve a garganella la fiaschetta, vuotandola fino all’ultima goccia e passò oltre dicendo:”No es lo mismo, pistolon!”.
No, non è la stessa cosa! Dipende da come la si racconta, la multiforme dea Eupalla…