Signor de Benoist, in passato, i partiti politici erano sinonimo di speranza, cambiamento, o di grandi sconvolgimenti. Oggi, più nessuno sembra credere nella loro capacità di cambiare il corso delle cose. Come spiega questa disaffezione?
Durante la Rivoluzione, i partiti politici, assimilati a “fazioni”, erano considerati come un “male temporaneo” (Robespierre). Nel senso moderno, non appaiono che nel XIX secolo, o all’inizio del XX (in Francia, il primo partito è il Partito radicale, fondato nel 1901). L’articolo 4 della Costituzione del 1958 afferma che “i partiti e i gruppi politici contribuiscono all’espressione del voto”, il che non significa molto. A volte per disgusto della politica in generale e per il fatto che, in democrazia parlamentare, i rappresentanti non rappresentano più niente, i cittadini hanno massicciamente disertato i partiti (i cui finanziamenti ormai dipendono da sovvenzioni pubbliche), così come hanno disertato le chiese e i sindacati. I partiti sono inoltre screditati: oggi non c’è che il 9 per cento dei Francesi che danno loro fiducia (sondaggio Cevipof, gennaio 2015).
La politica era in altri tempi un mestiere e una vocazione (“ein Beruf” diceva Max Weber). Oggi, la mediocrità della classe politica non attrae più personale di qualità: gli individui dotati si rivolgono verso altre professioni, socialmente più gratificanti e finanziariamente meglio pagate. Anche se rimangono la via d’accesso privilegiata a cariche politiche e continuano a monopolizzare l’accesso alle responsabilità elettive (si fa carriera in politica scambiando dei servizi con un partito), i partiti si sono evoluti, e nella peggiore direzione.
I partiti vogliono riunire, mentre le idee dividono. E’ per questa ragione che nessun intellettuale degno di questo nome può sentirsi a proprio agio in un partito. Anche perché, in tutti i partiti, l’ideologico ha lasciato molto presto il posto al programmatico, che è stato in seguito rimpiazzato dal comunicativo: annunci a effetto, slogan, indagini sui sondaggi, pressione dei social network, agenda dettata dalle esigenze mediatiche che si susseguono in “tempo zero”, mantenendo così il culto dell’istante. Non abbiamo più che dei partiti all’americana, cioè delle scuderie presidenziali che non esistono realmente che alle scadenze elettorali. Come ha scritto Marcel Gauchet, “il partito che ha la vocazione, per raggiungere di volta in volta una rappresentazione politica, definire un corpus ideologico e inquadrare le forze sociali, è una figura del passato”. Vale lo stesso per gli impegni politici di tipo “sacerdotale”.
Possiamo seriamente pensare che un partito politico, quello che sia, possa oggi far cambiare democraticamente la società? In questo dominio, le lobby e altri gruppi finanziari, non sono forse alla fine più efficienti?
È noto da tempo che nessun partito politico può essere veramente democratico, in ragione della “legge ferrea delle oligarchie” così ben descritta da Roberto Michels, che ha l’effetto di dividere ogni partito in una minoranza dirigente e una maggioranza diretta, creando così una burocrazia di dirigenti professionisti tagliata fuori dal popolo: “L’organizzazione è la fonte da cui nasce la dominazione degli eletti sugli elettori, dei mandatari sui mandanti, dei delegati su coloro che li delegano” (I partiti politici. Saggio sulle tendenze oligarchiche di democrazie, 1911). Questa burocratizzazione dei partiti spiega la sovrarappresentazione al loro interno di certe categorie sociali, che si reclutano per clientelismo e per cooptazione: funzionari, ex allievi dell’Ena, ex funzionari ministeriali e parlamentari, che non hanno mai realmente conosciuto la vita reale (numero di candidati socialisti appartenenti alla classe operaia alle ultime elezioni: zero).
Con l’eccezione di Marine Le Pen, non ci sono più in Francia leader di partito degni di questo nome: Harlem Désir o Cambadélis, non hanno evidentemente sostituito Jean Jaurès, Pierre Laurent non è davvero Georges Marchais, Nicolas Sarkozy non è che un caratteriale, come Manuel Valls (uno tipo ludico, l’altro in stile tenebroso). François Hollande resta un personaggio incomprensibile.
La grande Simone Weil nel 1940 pubblicò una Nota sulla soppressione generale dei partiti politici. Il suo giudizio era preveggente? Conserva ancora una qualche pertinenza?
In questo testo, riedito nel 2006 dalle edizioni Climat, Simone Weil descrisse i partiti politici come “macchine per la produzione di passione collettiva” e organizzazioni “totalitarie in germe e come aspirazione”, e sostenne la loro soppressione. Ma lei non disse con che cosa era possibile sostituirli. O come si potrebbe impedire alle persone di raggrupparsi all’interno di una qualsiasi associazione per fare insieme della politica.
Le sue osservazioni sono tuttavia molto attuali quando scriveva che “l’unico fine di ogni partito politico è la propria crescita, senza limiti”, osservò che non c’è grande differenza tra l’attaccamento a un partito e l’attaccamento a una Chiesa, l’uno e l’altro alimentando la stessa attitudine alla faziosità (“l’operazione di prendere partito, di prendere posizione a favore o contro, si è sostituita all’obbligo di pensare“), o quando espresse il desiderio che “la gente doveva esprimere la propria volontà in merito ai problemi della vita pubblica, e non fare solo una scelta di persone”. Ma chi legge ancora Simone Weil?
Intervista ad Alain de Benoist a cura di Nicolas Gauthier tratta da bvoltaire.fr [Traduzione dal francese di Manlio Triggiani]