MIA NONNA IN PRATICA ABITAVA ALL’AEROPORTO era la signora dei gabinetti di Orly, dove passavo le vacanze quando ero piccolo. Quanto mi piaceva stare lì dentro. «Il volo in partenza per Rio de Janeiro…». Cavolo, se ne va in Brasile quella gente! E correvo a vedere. «Il volo in arrivo da…». Mi passavano davanti tutte le città del mondo: Saigon, Addis Abeba, Buenos Aires… E io me ne stavo nei gabinetti. Che nonna puliva: lavorava per una ditta che si chiamava L’Alsacienne. Nonna si faceva la barba, e ne ero affascinato. Aveva un Gilette bilama con cui si rasava. «Nonna, pungi ancora!», le dicevo quando la baciavo. «Me la rifarò domani, tranquillo». Era la madre di mio padre. Ne ho fatti di viaggi da quando, nei gabinetti di Orly, sentivo destinazioni che mi facevano sognare. Allora pensavo: «Ci andrò anch’io, laggiù! Un giorno ci andrò anch’io e poi ritornerò, un giorno…!». Sognavo, e nella mia testa partivo tutto solo. Sempre e comunque. Fino al giorno in cui me ne sono andato davvero, ma senza violenza. Non sono partito perché mio padre, Dédé, era insopportabile, o perché mia madre, Lilette, lo era altrettanto; no, me ne sono andato perché ero libero. Ero stato amato per essere libero e per andare dove volevo. I miei genitori non mi hanno mai giudicato né trattenuto, niente di niente. Sono sempre stato libero.
Sono sopravvissuto a tutte le violenze che la mia povera mamma si è inflitta con i suoi ferri da maglia, con i suoi decotti, con i suoi pasticci. Il terzo bambino che proprio non voleva ero io, Gérard. Casa nostra era davanti alla scuola, a Châteauroux, nel quartiere dell’Omelon. Una catapecchia che puzzava di povertà. Perché da noi non ci si lavava spesso, lo facevamo una volta la settimana. E cavolo se puzzavamo! Dédé, che spesso tornava a casa ubriaco, a volte cadeva dritto disteso davanti alla scuola. Gli altri, i miei fratelli e sorelle, Alain, Hélène, Catherine, Éric, Franck, hanno vissuto le stesse cose e tuttavia, diventati adulti, hanno avuto una vita diversa dalla mia. Perché? Ho un bel chiedermelo. Hanno vissuto le stesse cose, certo, ma non hanno assaggiato i ferri da maglia. Il che non fa di me una persona infelice, per niente, ma fa di me qualcuno che fa la posta alla vita.
A scuola non ci sono andato per un bel pezzo, perché mi hanno cacciato… I miei non ce la facevano a pagare. Non potevano pagare niente. La prima comunione, per esempio, non la potevano pagare, e allora mi hanno cacciato anche i preti. Neanche il battesimo avevano potuto pagarmelo. Professori e preti si sono uniti per mettermi al bando, per cancellarmi. Io non sapevo di essere stato cancellato, l’ho capito dopo. Mi hanno sempre buttato fuori, professori e preti. Persone che comunque non erano delle merde, persone del tutto normali che sono venute a salutarmi tutte gentili quando Châteauroux mi ha concesso la cittadinanza onoraria dopo L’ultimo metrò di Truffaut, o Sotto il sole di Satana, o non so più cosa… C’erano anche i gendarmi che mi avevano sbattuto dentro per il furto di una macchina. D’altra parte, quelli che per me sono stati un po’ dei padri, quando ero piccolo, non sono stati né i professori né i preti, ma i gendarmi. Ho sempre avuto una certa intesa con i gendarmi e gli sbirri. Erano autoritari ma benevoli. Molto meno coglioni di quello che sembra.
A DIECI ANNI ANDAVO COI CAMIONISTI
Entro nei negozi, con una mano in tasca me lo solletico e con l’altra afferro dai banchetti quello che mi piace. Bisogna pur mangiare. Imparo a riconoscere gli sguardi equivoci, gli sguardi curiosi e viziosi. Imparo a sorridere. Se non sorridi vuol dire che hai paura, che sei perduto, diventi una preda. Imparo a sorridere sempre meglio, per mostrare agli altri di essere sicuro, di non avere paura. Quando gente con facce alla Lino Ventura, camionisti, giostrai, mi chiedono se mi va di farmi succhiare l’uccello, parlo di soldi, faccio il mio prezzo. Ho dieci anni, ma ne dimostro quindici. Non mi stupisce niente, della gente. Se sono riuscito a sopravvivere ai ferri da maglia di mia madre, di chi potrei avere paura? Di nessuno, e soprattutto non di me. Ho una fiducia assoluta in me stesso e nel mio destino. Questa sicurezza è il filo sospeso della mia vita, su cui procedo senza tremare.
A tredici anni, sono già alto un metro e settantacinque e peso settanta chili e, come ho imparato a fare nei cinema, entro nella base Nato senza invito. Basta sorridere sempre. Non ho neanche di che pagarmi la birra e le sigarette, e scopro l’Eldorado americano: negozi pieni zeppi di sigarette, liquori, jeans, T-shirt, carne in scatola, burro di arachidi… Nel giro di appena qualche settimana in quel posto in cui non possono entrare gli stranieri, sono di casa quanto un militare dell’Ohio. E il fatto di entrare e uscire sulle Buick o sulle Chevrolet dei miei amici mi permette di nascondere nel bagagliaio ogni tipo di merci. Comincio a vendere sigarette, whisky, camicie, jeans, T-shirt. In una settimana guadagno quello che Dédé fatica a mettere insieme in un mese, sono pieno di soldi.
Alla fine mi beccano per il furto di una macchina, che era poi un “prestito” per una sera. Mentre sono in galera, ho la rivelazione che ribalterà la mia vita. La dice lo psicologo della prigione. Mi accoglie con simpatia e, prima di farmi qualunque domanda, afferra le mie mani e le esamina a lungo, in silenzio. «Hai mani da scultore», conclude. È un raggio di luce che piomba improvviso dal cielo mentre ammuffivo in fondo a una cella. Quel giorno imparo quello che sono: un artista.
IL MIO ’68 A DERUBARE GLI STUDENTI
Nella primavera del 1968 le prime manifestazioni degli studenti passano sopra la mia testa. Non penso che possano esprimere l’esasperazione per gli anni passati sotto de Gaulle. Non ho nessuna coscienza politica e ho una conoscenza della storia molto approssimativa: il mio unico punto di riferimento è avere visto Dédé che vendeva L’Humanité . Di conseguenza sono portato a simpatizzare con i comunisti e la sinistra in generale, ma non ho letto né Marx né Jaurès né Mao. Quando vedo studenti che scandiscono “CRS-SS”, costruiscono barricate e bruciano automobili, penso che siano figli di ricchi, ragazzi borghesi, e rido dello spettacolo ridicolo che offrono. Ma non mi limito a ridere, mi mescolo in mezzo a loro e la notte, mentre dormo all’Odéon o nelle aule della facoltà di medicina, li derubo meticolosamente: orologi, collane, spille… «Continuate a fare la rivoluzione, ragazzi miei, che intanto tiro su un po’ di grano».
Nel 1974 I santissimi è il film che mi fa conoscere a Bernardo Bertolucci. Quest’ultimo sta per girare un affresco che racconta l’Italia della prima metà del ventesimo secolo attraverso i destini incrociati di due ragazzi nati lo stesso giorno, nel 1900, in una grande tenuta agricola dell’Emilia. Uno, Alfredo, è il figlio viziato del proprietario, e diventerà fascista; l’altro, Olmo, è il bastardo di una famiglia di mezzadri legati alla tenuta, e diventerà comunista. Robert De Niro ha accettato il ruolo di Alfredo, e Bertolucci mi vuole per Olmo.
È in occasione di Novecento che commetto la mia prima rapina sul lavoro. Vengo a sapere quanto sarà pagato De Niro, ma Bertolucci mi propone la metà. A Serge Rosseau, il mio agente dell’epoca, sembra normale: «De Niro ha già fatto una dozzina di film, è molto più conosciuto di te».
«Me ne frego, voglio quanto l’americano, centoventimila dollari o niente».
«Ma Gérard, sei pazzo! Come puoi?».
«Lo stesso che prende l’americano, o niente».
BORGHESI PARIGINI IPOCRITI
Quello che la gente non capisce è che non ho mai avuto il sogno di fare l’attore. Il mio sogno è stato quello di sopravvivere. Ho fatto l’attore per uscire dall’analfabetismo. Avrei potuto fare altro, ci sono capitato per caso, non ho scelto niente. E siccome non ho niente, mi devo sbattere. Non per avere tutto, che non mi interessa. Ma la vita mi interessa, cazzo! La vita con le sue sorprese, quella non smette mai di interessarmi. Mai. Se non vogliono pagarmi, me ne frego, vado a fare qualcos’altro.
«Bertolucci vuole uno di talento? Bene, il talento si paga. Serge bello, vaglielo a dire, e torna col grano». E Bertolucci cede, mi paga lo stesso dell’americano.
Ma al ritorno le cose si guastano. Mio figlio Guillaume va a scuola in questo quartiere residenziale pretenzioso e ipocrita. In una scuola borghese non è raccomandabile essere ebrei, arabi e negri. E presto anche essere figlio di Depardieu diventa un fardello. Quando interpreti dei piccoli delinquenti, dei puttanieri, quando ti tagli l’uccello con un coltello elettrico; quando interpreti Handke a teatro e ogni sera fai quello che fai; quando uno appare in televisione con Gainsbourg o Coluche, bene, questo finisce per dare fastidio in un quartiere residenziale borghese. Laggiù conta solo l’apparenza, hanno quarant’anni e sono già morti. Non andranno mai in fondo a se stessi. Hanno il loro lavoro, due marmocchi, le mogli fanno le casalinghe e si fanno trombare dal primo che passa mentre il marito ha l’amante e quando torna a casa si addormenta a fianco di una donna che non tocca più. Il sabato sera fanno la grigliata sul prato e la domenica sera litigano. Nei quartieri residenziali della periferia ovest le cose vanno così. Guillaume scappava sempre a Parigi. A dodici anni, faceva come me alla stessa età: prendeva il treno, passava la notte fuori e tornava il mattino. Dopodiché ci sono stati i malintesi, le menzogne, la droga… Io non c’ero mai, è la loro madre che ha dovuto sobbarcarsi tutto. Ho voluto lasciarli liberi, come lo ero stato io, ma penso che per loro sia stato difficile all’ombra di un figlio di buona donna come me che passava il tempo a strapazzare i benpensanti, a mostrargli cose che non avevano voglia di vedere, a dirgli cose che non volevano sentire.
Se hai sei o otto anni, che cosa vuoi ribattere a un moccioso che dice che tuo padre è un delinquente, un perverso, un assassino che se ne sbatte della morale – tutto ciò che ha sentito dire dai suoi genitori? E poi che sono amico dei dittatori perché ceno con Fidel Castro, in attesa delle abbuffate con Putin. Sono miei amici, e allora? La gente non ha capito nulla. La verità è che io non sono cambiato di una virgola da quello che ero a dodici anni. Continuo a vivere nello stesso modo, a essere l’amico di chi dico io. Oggi do fastidio per cose che non capisco, ma mi fanno capire quanto sono diverso da tutti quelli che mi giudicano per quello che leggono sui giornali. Amo la Russia, sono amico di Putin, mi sento tanto francese quanto cittadino del mondo, e non penso di fare male a nessuno concedendomi la libertà di andare a vivere dove voglio e di amare chi voglio. Esattamente come quando mi spacco il muso con la moto, da solo, quando sono ubriaco: sono fatti miei, non faccio male a nessuno. Quindi che mi si lasci vivere a modo mio.
Se Putin e io ci siamo incontrati, se ci siamo riconosciuti subito, è perché entrambi avremmo potuto diventare delinquenti. Penso che in me gli sia subito piaciuto il mio lato hooligan, sia che pisci in un aereo, che prenda a testate un paparazzo o che mi tirino su da un marciapiede ubriaco fradicio. E io, facendolo parlare, ho capito che anche lui ne aveva fatta di strada, che come nel mio caso nessuno avrebbe scommesso un soldo su di lui quando aveva quindici anni. L’ho incontrato la prima volta a San Pietroburgo, nella primavera 2008, all’inaugurazione della collezione Rostropovic al palazzo di Costantino. Putin inaugurava la mostra, e io ero stato invitato. Ho capito subito che non conosceva nulla di pittura e di arte in generale, e la cosa mi ha colpito. Ho intuito che era uno che si era fatto da solo, e abbiamo cominciato a chiacchierare. La sua passione è la storia. Mi ha fatto parlare della Rivoluzione francese, di Danton, di Napoleone, e abbiamo promesso di rivederci.
MACCHÉ DITTATORE…
Ho cominciato a scrivergli. È molto facile: io parlo in francese, un tipo trascrive quello che dico e poi lo traduce in russo, e il risultato arriva sulla scrivania di Putin. Gli parlo un po’ di tutto, come a un vecchio amico; la cosa lo diverte, e mi risponde. È rimasto toccato che nel 2010, a Salisburgo, abbia fatto la voce recitante in Ivan il terribile di Prokof’ev; e quando sono tornato a Mosca, mi ha raccontato la storia dei suoi genitori, il miracolo che sua madre fosse sopravvissuta durante l’assedio di Leningrado e che lui, Vladimir, fosse riuscito a venire al mondo nel 1952. Ciascuno a suo modo, entrambi siamo dei miracolati. Putin cresce a Leningrado in un ambiente povero e operaio. Chi lo allontana dalla strada è Anatolij Sobcak, che verrà eletto sindaco nel 1991. Allora Sobcak è professore di diritto e Putin mi racconta come, dopo averlo conosciuto, scelga l’ordine e la disciplina, nello stesso modo in cui molti teppisti finiscono per entrare in polizia, e spesso diventano ottimi poliziotti. E anche lui fa lo stesso, dal momento in cui entra nel Kgb. Hanno scritto che sono amico di un dittatore. Putin un dittatore? Non so niente di politica, di coglionate ne dico la mia parte, ma per me Kim Jong-un è un dittatore, non Putin.
Non sono io che tradisco la Francia, sono i francesi che tradiscono se stessi. A poco a poco hanno perso il senso della libertà, il gusto dell’avventura, hanno perduto l’udito, l’olfatto, non sentono più la musica trasportata dal vento, come laggiù in Kazakistan, dove senti le ragazze cantare da un villaggio all’altro; hanno perduto il senso della vita e della felicità, pian piano si sono lasciati divorare dal cancro della paura, e ora vivono nel terrore di ciò che potrebbe succedergli. Hanno paura degli stranieri, hanno paura del loro vicino, hanno paura del domani, hanno paura di tutto.
E c’è chi mi dà del miserabile perché levo le tende… Sì, a sessantacinque anni non ho voglia di pagare l’87 per cento di tasse. Ma non è che non abbia fatto la mia parte: ho dato allo Stato francese centocinquanta milioni di euro, mentre è dai tempi della scuola che non chiedo un soldo a nessuna istituzione. Ho sempre pagato medici, medicine, chirurghi e operazioni, non so neanche cosa sia la mutua. Non mi sento affatto in debito con la Francia, amo questo paese, gli ho dato molto, non me ne lamento, ma ora non rompetemi le palle!
(tratto dall’autobiografia È andata così, Bompiani, 140 pagine, 18 euro)