Un intelligente conservatore, Sergio Romano, sul Corriere della Sera, rispolvera una storia dell’ottocento. Racconta un uomo dell’epopea napoleonica. Sembrerebbero argomenti da manuali per i licei. Tuttavia è acuta la ricostruzione critica di Romano: lo studioso osserva le azioni del sovrano di Napoli, ossia Gioacchino Murat. Per una certa storiografia, questo personaggio storico appare più come il cognato traditore di Napoleone e meno come il sovrano che accende la miccia di un primo Risorgimento italiano. Egli è un esempio storico di forza morale: tenta di coinvolgere il popolo con un appello alla sovranità italiana e con una ricerca dell’indipendenza nazionale dai super-stati, l’Austria e l’Inghilterra.
Oggi il significato storico-politico di Gioacchino Murat (1767-1815) è da rileggere. Egli raffigura un ottocento “estetico” ed insieme “etico” (cfr. Claudio Asciuti). Azioni militari tumultuose. L’ansia di comunicare una visione ideale della contemporaneità. Così le sue imprese militari e la sua lotta nazionale creano la vicenda di un vitalismo ottocentesco sul quale soffermarsi, con nuove intenzioni storiografiche.
Principalmente, l’esempio storico muratiano va inserito nel quadro di un forte indipendentismo populista che anticipa Mazzini e la Carboneria. Murat parla direttamente alle popolazioni italiane. Decide di non accettare più alcuna mediazione. Nel marzo del 1815 il suo ‘Proclama di Rimini’ invita il popolo a “non aver più padroni” fuori dalla propria terra. Sarebbe allora interessante riconsiderare il ‘Proclama’ muratiano come una specie di documento sovranista ante litteram.
Leggendo questa lontana passione patriottica, ancora una volta si figura una storia di uomini che non accettano le volontà delle alleanze politiche europee, perché attendono la giusta pronuncia dei popoli. “ Chi ama la patria, alzi la sua voce, il suo braccio generoso per liberarla… ”oppure “Oh Italiani! Svegliatevi, levati in massa, marciate contro il nemico comune…”
Per una nuova lettura del mito muratiano. Per narrare un’altra volta la sua morte cinematografica: egli comandò da solo il suo plotone di esecuzione. Per alimentare culturalmente gli eventi di una primigenia sensiblerie sovranista; Murat non dovrebbe essere letto come il ‘cognato dannunziano’ di Napoleone Bonaparte. Invece, il re delle due Sicilie, come amava chiamarsi, dovrebbe essere riconosciuto, non come un appendice impetuosa dell’epopea napoleonica, bensì come un indipendentista storico, con “una carica vitalista, con una ‘superomicità’ che lo pone come diretto contraltare delle fredde collere napoleonice.” (Claudio Asciuti, “Murat”, 1990).
E’ vero che fu il popolo calabrese, con i soldati borbonici, a colpirlo a morte. Però le cronache del tempo descrivono un popolo immaturo, incapace di comprendere gli eventi nazionali. E come scrive Sergio Romano,“ma vi è anche l’amara constatazione che i primi nemici dell’unità nazionale italiana furono per molto tempo gli italiani”.
Proprio in questi giorni sembra che abbiano rintracciato il sepolcro di Murat dentro una fossa della cattedrale di Pizzo Calabro. Di sicuro saranno svolti i necessari accertamenti sull’identità di un povero corpo. E se fossero i resti mortali di Gioacchino Murat, allora gli italiani generosi di Calabria dovrebbero recitare – in una cerimonia per una nuova sepoltura – il suo “Proclama”, il testamento politico di un uomo che prima di morire si avvicina al suo plotone di esecuzione, lo comanda eroicamente, poi esclama, “Avanti! Amici miei, puntate al petto e rispettate il viso”.