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L’intervista. Accame: “Da Malaparte a Pound, da Brasillach a Drieu: le mie letture ribelli”

by Gabriele Marconi
15 Aprile 2015
in Corsivi, Le interviste
0

Giano-Accame1Ecco la prima chiacchierata sui “Miti fondanti”. Quando pubblicammo su Area questa rubrica, alcuni anni fa, decisi di cominciare il ciclo d’incontri con Giano Accame, uno dei motori più brillanti della nostra rivista, il più anziano e, al tempo stesso, il più giovane di tutti noi. Ed è a lui – morto un anno e mezzo fa -, amico carissimo e maestro indimenticabile, che voglio dedicare la ripubblicazione di queste pagine.

 Il primo incontro è con Giano Accame, giornalista e saggista di lungo corso, autore del recente Una storia della repubblica. Accame fa risalire la prima pietruzza del suo personale mosaico «all’annuncio dell’Impero, nel maggio del ’36, quando frequentavo le scuole elementari. Un paio d’anni dopo quelle atmosfere vennero esaltate dai film “africani”…».

Ricordi i titoli?

Luciano Serra pilota, di Alessandrini, con Amedeo Nazzari, poi Sentinelle di bronzo, mi sembra di Romolo Marcellini, sui dubat, le nostre truppe coloniali; li ricordo perché sono legati appunto all’idea dell’Impero, dell’espansione italiana che tanto mi avevano colpito da bambino… erano gli anni in cui, vicino al Colosseo, insieme alle carte geografiche dell’espansione romana, se ne aggiungeva una con la nuova espansione italiana… c’era l’illusione del nuovo impero di Roma… l’idea di grandezza, insomma. E naturalmente il fascino dell’Africa. Ho il ricordo delle camicie nere a La Spezia: noi balilla assistemmo al loro ritorno. Portavano i caschi coloniali, un accessorio buffo che in tutti i viaggi che poi ho fatto da giornalista inviato (anni ’60-’70), in Angola, Mozambico, Nigeria, non ho mai più visto… I legionari portavano dall’Africa chi una lancia, chi uno scudo, chi addirittura una scimmietta sulla spalla… sembrava di veder vivere i romanzi di Salgari, no? L’avventura si fondeva alla storia.

E li leggevi, in quel periodo?

I libri di Salgari? Sì, certo, ma soprattutto Luigi Motta, che mi piaceva di più… allora era conosciuto forse più di lui.

Ma parlavano dell’Oriente o proprio dell’Africa?

Boh, adesso non ricordo esattamente… Avventure esotiche, comunque, e poi nella fantasia dei ragazzi si faceva un tutt’uno: Mompracem chissà dov’era… per noi poteva essere anche dalle parti di Mogadiscio! Un’altra “impressione” forte della mia infanzia fu il Museo navale, all’Arsenale di La Spezia. Anche perché ero figlio di un ufficiale di Marina, nipote di un ammiraglio… ero destinato a seguirne la strada, pur senza una particolare vocazione, come era successo sempre in famiglia: il Museo Navale era il luogo dei miei sogni per l’avvenire, insomma.

Poi la guerra, che sfiorasti soltanto, arruolandoti un giorno prima della fine, nella Rsi.

E vennero I proscritti, di Ernst von Salomon, avrò avuto diciotto, diciannove anni, più o meno nel ’46.

E dov’è che vendevano un libro del genere, in quel periodo?

Lo trovai su una bancarella, credo fosse la vecchia edizione Einaudi, quella con la copertina di Guttuso. Con sottile e perfida intelligenza, Einaudi decise di pubblicare proprio nel ’43 libri idealmente molto schierati, ma che già suggerivano l’idea della sconfitta: non per niente, uno fu L’Alfiere, di Carlo Alianello, nel quale un soldato borbonico vede morire il Regno delle Due Sicilie, l’altro, quello di von Salomon, raccontava le vicende dei “corpi franchi”, i tedeschi che in qualche modo si ribellavano alla sconfitta della Prima guerra mondiale. Per me era rappresentativo dei sentimenti di rivolta di quelli della mia generazione, gente come Fabio De Felice, Fausto Gianfranceschi, Enzo Erra… che si ribellavano alla sconfitta con la politica attiva.

E il Movimento sociale italiano venne fondato il 26 dicembre ’46…

Infatti, ma io cominciavo a far politica qualche mese prima, con il Fronte degli italiani, che era nato intorno a Rivolta ideale, il settimanale di Tonelli. Quando poi venne fondato l’Msi, gli iscritti del Fronte furono automaticamente accorpati nel nuovo movimento.

Il partito curava la formazione?

Ci pensò Carlo Costamagna, il grande giurista fascista (aveva scritto la Carta del Lavoro) poi tra i fondatori del Msi. Proprio lui, credo nel ’48, mi passò Rivolta contro il mondo moderno, nell’edizione Bocca.

Ed ecco Evola…

Rivolta mi “curò” dalla delusione e dall’irritazione che avevo provato alla prima lettura di Gentile, Genesi e struttura della società… mi ero incagliato nel primo paragrafo, intitolato “Disciplina”: quel linguaggio, quel gergo dell’idealismo, mi sembrava troppo complicato. Con Evola ho trovato una lettura più semplice.

Sembra una battuta!

È che forse ero più predisposto a ricevere il messaggio tradizionale di Evola che non quello filosofico di Gentile. Insomma quei due libri, I proscritti e Rivolta contro il mondo moderno furono fondamentali per i miei anni giovanili. Certo, poi naturalmente c’erano i testi più facili di Evola, quasi dei manuali di reclutamento per la corrente dei “Figli del sole”: Orientamenti e Gli uomini e le rovine, letture da cui poi mi sono anche un po’ allontanato, ma sono quelle che hanno avuto l’effetto più formativo.

Non hai più parlato di film.

E be’, parlando di eventi formativi, quanto a film mi fermo a quelli che ho ricordato prima.

Anche semplicemente “importanti”… indimenticabili, ecco.

Allora Casablanca, con Bogart.

Perché Casablanca?

E chi lo sa! Forse perché mi piaceva la Bergman. So di certo, però, che mi colpivano molto i film sulla vittoria degli altri.

Dove ti colpivano?

Mi si torcevano le budella dall’invidia… sentivo che questa era la grande cosa che nella vita mi era mancata: la vittoria dell’Italia in guerra, insomma. Ero abituato, fin da bambino, a considerare l’Italia vittoriosa… ero cresciuto avendo alle spalle la Grande guerra, le celebrazioni della vittoria, e poi la conquista dell’Impero, la Guerra di Spagna… Sì, questa cosa mi è mancata tutta la vita.

Adesso ti faccio una domanda retorica, visto che già conosco la risposta: c’è stato un libro che ha evidenziato questi tuoi sentimenti?

La pelle di Malaparte, che ho letto come un doloroso racconto “fascista” su che schifo era stata la liberazione, con gli americani che sfruttavano in maniera vergognosa la fame degli italiani. Malaparte, che aveva seguito le truppe Alleate come ufficiale di collegamento, ne poté parlare con una libertà assoluta. E nel buio terribile del dolore e dell’umiliazione dell’Italia liberata, si illumina di orgoglio soltanto nelle pagine che parlano dei “franchi tiratori” fiorentini fucilati dai partigiani.

«Li ammazzano perché gridano viva il duce»… «No, gridano viva il duce perché li ammazzano».

Sì, Malaparte, che già si diceva antifascista e che di lì a poco avrebbe preso la tessera del Pci, non riusciva a nascondere lo schifo per l’arroganza e l’inciviltà degli americani e l’ammirazione per quei ragazzini di Firenze che non volevano starci, a perdere la dignità. Lo lessi prima che uscisse in Italia: veniva pubblicato a puntate, su un giornale francese che mi portava mio padre… lui era ingegnere navale, e non potendo lavorare in Italia, perché personaggio non gradito, era costretto a lavorare in Africa, prima in Cirenaica e poi in Algeria, dove comprava questa rivista, di cui non ricordo il nome.

E Rivolta contro il mondo moderno si inserisce idealmente qua. Ma poi, come dicevi prima, ti sei un po’ allontanato da Evola: per approdare dove?

A Il borghese, di Werner Sombart… ad interessi di carattere economico e sociale.

Siamo negli anni…

Direi il ’60 o ’61. Il borghese, dicevo, poi Il tramonto dell’Occidente, di Spengler: la rivolta all’economicismo, il rifiuto dell’economia come destino, quando quel destino si rivelava incombente. È stato un po’ come liberarsi dallo snobismo evoliano, che ha portato tutta una generazione a non occuparsi di economia… come si diceva nei Promessi sposi, «scostati, vile meccanico», no? Accanto ai nuovi interessi, però, continuavano ad affascinarmi gli scrittori in qualche modo legati al fascismo… Amavo soprattutto i francesi, La Rochelle e Brasillach, avevo una grande passione per loro.

Come arrivarono nelle tue mani?

Tutto cominciò dalla lettura di Romanticismo fascista, di Paul Serrand, che poi sono andato a conoscere in Francia.

E cosa ti smuovevano libri come L’uomo a cavallo o Sette colori?

La concezione eroica dell’esistenza, la gioia fascista del cameratismo e dell’attesa del combattimento.

Ancora non ti ho sentito parlare di Ezra Pound.

Ma è perché l’ho davvero scoperto molto tardi. Avevo comprato nel ’57, ’58 i Canti pisani… erano appena usciti… trovandoli difficili e astrusi: la prima reazione è stata quella di rigetto. Insomma, gli davo ragione quando diceva che «la Bellezza è difficile».

E il recupero?

Nei primi anni Ottanta, quando facevo il giornalista economico al Fiorino, e Antonio Pantano (forse il maggior collezionista del grande poeta americano), nel primo decennale della morte mi commissionò un saggio su Pound economista, da inserire in un libro collettaneo. Mi sono dovuto impegnare a leggerlo a fondo, e da allora ho capito che avevo sbagliato per pigrizia, nel rifiutarlo al primo impatto.

Tanto da pubblicare, dopo una decina d’anni, un libro con lo stesso titolo, e un paio d’anni fa, sempre in tema di analisi poundiana, Il potere del denaro svuota le democrazie.

Sì, per Settimo Sigillo, con cui ho pubblicato buona parte delle mie cose.

Quindi Pound, nella maturità.

Diciamo pure nell’ultimo tratto…

@barbadilloit

(dal mensile Area)

@barbadillloit

Gabriele Marconi

Gabriele Marconi

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