Uscita con le gambe molli dal confronto con una Francia (29-0) tutt’altro che irresistibile, la Nazionale azzurra conclude il suo sei Nazioni affrontando un Galles che può ancora vincere il torneo. Dipenderà tutto dal margine di vantaggio.
Uno “0” in tabellino è comparso in precedenza solo altre due volte nella storia di tutto il Sei Nazioni: un 25-0 sempre dei “galletti” contro gli Azzurri a Parigi nel 2004, e un 20-0 dell’Inghilterra sulla Scozia a Edimburgo.
“Mi aspetto una gara difficile contro un XV gallese capace di mettere pressione sia palla in mano che al piede – ha detto il Ct italiano Jacques Brunel -, però daremo un’immagine di questa Nazionale diversa da quella vista domenica scorsa”. Una dichiarazione d’impegno che vede però un ostacolo non solo nella qualità degli avversari, ma anche nella condizione fisica dei nostri giocatori. A partire dal forfait di Sergio Parisse per la lesione al primo dito del piede destro riportata proprio contro la Francia: sarà così rimpiazzato dall’equiparato figiano Samuela Vunisa, con Leonardo Ghiraldini promosso a capitano. Rientreranno i veterani Martin Castrogiovanni, escluso per scelta tecnica dal match contro i transalpini, e Mauro Bergamasco, oltre che per il pilone dei Leicester Tigers Michele Rizzo, mai convocato in questa edizione del Sei Nazioni e al quale viene ora consegnata direttamente la maglia di titolare.
La sfida contro il Galles ci fa venire in mente momenti diventati per noi autentica storia. L’11 marzo 2006, 18 pari al Millennium di Cardiff, la prima volta senza dover piegare la testa lontano da casa, due mete italiane (Galon e Canavosio), contro una sola dei Dragoni, un vantaggio che tenne sino al 18’ del secondo tempo, la sensazione che la vittoria era lì, da accarezzare e stringere.
15 febbraio 2003, al Flaminio, le Tre Piume vennero strappate ai gallesi dal piede di Diego Dominguez e dalle irruzioni di De Carli, Festuccia e Phillips (30-22) e i giornalisti del Principato intonarono un lamento: “Che vergogna, che vergogna”. E a chi faceva osservare che altre piccole in passato avevano fatto la festa ai rossi, rispondevano: “Ma voi non siete un paese da rugby”. Ci stiamo attrezzando, rispondemmo, e quattro anni dopo, a due settimane dalla gloriosa giornata di Edimburgo, venne concesso il bis spolverato di beffa. “Ho ancora tempo”, chiese Hook all’arbitro White, inglese: “Certo”. E così Hook non piazzò e calciò in touche, White fischiò la fine e l’Italia tenne quel che in ippica si chiama corta incollatura: 23-20.
“Incontrarli, qui o lassù, è sempre un piacere: provoca un viaggio in quella che Thomas chiamava la pietrosa contea” ha scritto la penna elegante di Andrea Cimbrico, uno dei pochi giornalisti italiani che se ne intendono davvero di palla ovale.
Passare il Severn è trovarsi dentro la bocca del meno minaccioso dei draghi: ne hanno piazzato uno subito dopo il ponte a pedaggio sull’estuario popolato di cornacchie e pivieri, una pietra di confine: qui comincia il Galles, Cymru, che si pronuncia Camrà, il paese del piccolo popolo, dei poeti, della lingua dei bardi, della via dei canti, del pellegrinaggio verso St David come fosse un cammino di Santiago, delle miniere spazzate via, del rugby.
“Molti anni fa due ruvidi neozelandesi dissero che in Galles puoi segnare più mete ma a vincere saranno sempre loro – racconta Cimbrico -, e ci sarebbero tanti esempi risalendo per i sentieri del tempo, ma è sufficiente fermarsi a quando a Bradley Davies era morta la madre e il minuto di raccoglimento aveva il suono del silenzio, la migliore delle ouverture prima di Land of My fathers, Mae hen wlad fy nadhau, che finisce ‘possa la tua antica lingua vivere ancora’ e che i 74.500 del Millennium, sorto sulle ceneri dell’Arms Park dai prodigiosi cancelli, cantano come la più sterminata delle società corali, dopo aver dato fondo al repertorio: Sospach, Bread of Heaven, Delilah, cavallo di battaglia di Tom Jones, gallese”.
“Dicono che il nostro inno valga sette punti di vantaggio: in realtà vale molto di più”, sostiene Gareth Edwards, l’uomo che il 27 gennaio 1973 segnò la più bella meta della storia, e pazienza se quel giorno aveva addosso la maglia dei Barbarians e non quella rossa con le Tre Piume, il simbolo che Edoardo il Principe Nero ebbe in dono dal re di Boemia in fondo a una sanguinosa giornata. Quei sette versi valgono l’identità di una sterminata legione di Jones, Williams, James, John, Evans, Thomas, Davies. E più che il ricordo di certi pomeriggi a Cardiff, torna in superficie una serata fredda a Ebbw Vale, in una di quelle valli: stadio vecchio, panche di legno umido, abitanti 20.000, 10.000 sulle tribune, compresi il parroco cattolico e il pastore anglicano: in campo, la seconda squadra del Galles contro la seconda squadra azzurra. A un metro, un vecchio che tiene per mano il nipote: il vecchio ha rughe profonde, il bambino è piccolo e ha un berretto rosso con le piume. Cantano, come i fanti del reggimento di Birmingham (tutti gallesi però) che in 85 difesero il guado di Rorke Drift dall’assalto di 4.000 zulu e presero 17 Victoria Cross. Record tuttora imbattuto.
Dicono che il rugby per i gallesi sia una buona ragione per regolare vecchi conti con gli inglesi. Di certo c’è che la composizione sociale dei due movimenti è la più diversa si possa immaginare. Almeno, era così al tempo del vecchio rugby che si giocava per diletto. Gli inglesi erano aristocratici, borghesi e arroganti: i gallesi, operai e minatori, con uno strano modo di parlare e, secondo i vecchi padroni, dotati di un lento comprendonio. Il rugby e la birra erano i divertimenti dei giorni di festa, quelli che Richard Burton nelle sue memorie, picaresche e illimitate, descrive popolate degli stessi personaggi fiabeschi e bizzarri di Thomas, il bardo ubriacone di Swansea. Per i gallesi il gioco era arabesco (soprannome di Gerald Davies, l’arte in movimento), è ricerca della bellezza del pallone portato al largo dando il via a un intreccio di passi incrociati, è caccia al pavone bianco inglese per dimenticare secoli di sudditanza, tutto riassunto nel discorso, degno di un condottiero, pronunciato da Phil Bennett: “Guardate cosa ci hanno fatto questi inglesi bastardi: hanno rubato la nostra acqua, il nostro carbone, i nostri cavalli e per noi non hanno mai fatto nulla. Oggi giochiamo contro l’Inghilterra”.
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