Il mio primo incontro con la poesia di Ardengo Soffici (Rignano sull’Arno 7 aprile 1879 – Poggio a Caiano 19 agosto 1964), scrittore, pittore, critico letterario e poeta tra i più significativi e luminosi della prima metà del ‘900, avvenne al liceo grazie ad un’antologia che riportava questo suo testo poetico:
Ospedale da campo 026
Ozio dolce dell’ospedale!
Si dorme a settimane intere;
Il corpo che avevamo congedato
Non sa credere ancora a questa felicità : vivere.
Le bianche pareti della camera
Son come parentesi quadre,
Lo spirito vi si riposa
Fra l’ardente furore della battaglia d’ieri
E l’enigma fiorito che domani ricomincerà.
Sosta chiara, crogiuolo di sensi multipli,
Qui tutto converge in un’unità indicibile;
Misteriosamente sento fluire un tempo d’oro
Dove tutto è uguale :
I boschi, le quote della vittoria, gli urli, il sole, il sangue dei morti,
Io stesso, il mondo,
E questi gialli limoni
Che guardo amorosamente risplendere
Sul mio nero comodino di ferro, vicino al guanciale.
L’immagine mediterranea di quei gialli limoni, simbolo di forza ritrovata nella convalescenza, si impresse profondamente nel mio animo, mi rivelò un modo di fare poesia genuino, fresco, lontano dall’artificio e dalla retorica di D’Annunzio o di Montale. Questa poesia fa parte di quei “bei versi germogliati dalla prosa del Kobilek” (il giornale di battaglia pubblicato dall’autore nel 1918), “tragicamente allegri nella loro indubbia freschezza e novità lirica” (Mario Richter, in introduzione al carteggio Papini-Soffici, Roma, 2002). Queste poesie furono poi raccolte nella sezione Intermezzo del volume Marsia e Apollo edito da Vallecchi nel 1938, che raccoglie l’intera e non ingente produzione poetica di Soffici (le poesie giovanili, i Bïf§zf+18 Simultaneità e Chimismi lirici del 1915, le poesie posteriori ad Intermezzo). Come scrive Antonio Pietropaoli, Soffici non nacque poeta, ma arrivò alla poesia attraverso un lungo tirocinio di critica letteraria e di prosa e nei Chimismi si rivela “non soltanto uno dei maggiori poeti del suo tempo, ma anche poeta d’istinto” (in Poesie in libertà, Napoli, 2003).
Nella sua produzione poetica i critici sogliono distinguere due periodi nettamente separati, uno futurista e l’altro classicista, svalutando brutalmente il secondo e salvando in qualche modo il primo. Ritengo che questo modo di considerare gli autori non nella loro evoluzione e nel complesso della loro opera, ma contrapponendo una fase all’altra, un’opera all’altra, sia scorretto, volendo coprire per lo più un pregiudizio ideologico. Emblematico in questo senso è il giudizio del critico Pier Vincenzo Mengaldo: “l’unico momento veramente interessante è quello futurista”, “di scarso rilievo le poesie giovanili, riprovevoli quelle successive alla prima guerra improntate ad un insulso classicismo” (in Poeti italiani del Novecento ed. Mondadori). L’aggettivo “riprovevoli” indica non un giudizio estetico, bensì morale, qui il critico vuole condannare l’adesione al fascismo, cui Soffici si mantenne fedele anche dopo la seconda guerra mondiale. E a conferma della gratuità e pregiudizialità del giudizio del Mengaldo citiamo la sua conclusione: “anche nelle poesie migliori dei suoi trent’anni si legge benissimo la perniciosa superficialità dell’uomo Soffici”, che consisterebbe nel suo approdo al neoclassicismo rurale e fascista. Lo stesso Mengaldo d’altronde finisce per riconoscere che in Soffici la “modernità stilistica (…) può produrre risultati singolarmente freschi”.
A mio avviso, non c’è in Soffici uno iato tra i due momenti dell’avanguardia e del ritorno all’ordine, tra il periodo “anarchico” e quello “fascista”, con la precisazione che il suo “anarchismo” era piuttosto aristocratico ed esistenziale, era meno utopismo che insofferenza ai vecchi e sclerotizzati schemi e che il suo “fascismo” era piuttosto popolare e mai scevro di spirito critico. Scrive Aurelia Accame Bobbio:
“Rifiutando la base materialistica il suo richiamo all’ordine tendeva a fondarsi già prima dell’avvento del Fascismo al potere su quei valori tradizionali della civiltà italiana dalla religione alla famiglia, dall’economia prevalentemente agricola all’arte rinascimentale, valori che la politica del Regime pareva assecondare”.
Del resto, la ricerca d’un ordine personale e sociale accomuna i maggiori intellettuali del ‘900 di diverso od opposto orientamento da Pierre Drieu La Rochelle ad André Malraux, da Curzio Malaparte a George Orwell.
Dietro la maschera della negazione, del rifiuto della morale borghese di cui Soffici dà un magnifico saggio nel Giornale di bordo (1914) c’era il carattere di un costruttore, di un combattente per una nuova Italia. La capacità di guardare alla vita con occhio innamorato è una costante in tutte le sue opere sia letterarie e che pittoriche insieme ad un certo vitalismo di sapore nicciano e allo spirito di rivolta. La stessa adesione al Futurismo non fu acritica, ma frutto di un progressivo avvicinamento e filtrata dalla sua particolare sensibilità che poneva al primo posto la fusione con la natura, l’adesione alla vita. E’ noto l’episodio della scazzottata con i futuristi milanesi del 1911 dopo la sua stroncatura apparsa sulla rivista La Voce del movimento d’avanguardia (definito “il baccano futurista”). E qualche tempo prima, era il 1910, sulle stesse pagine, aveva scritto: “Trovo ancora il buon vecchio sole abbastanza interessante per non buttarlo nella cassetta della spazzatura, come un’arancia andata a male; non ho rancori personali con le stelle; né per i begli occhi di una lampadina ammazzerò il chiaro di luna.”
Se i futuristi milanesi e i futuristi fiorentini condividevano l’insofferenza del presente e il desiderio d’un rinnovamento, lo spirito antiborghese e la rivolta, erano però separati dal senso amaro dell’esistenza, dall’assimilazione anziché dal rifiuto del passato, da una certa sfiducia nella civiltà tecnica e industriale, assenti nei primi e presenti nei secondi. Soffici fu dunque un futurista sui generis. Mutuò dal futurismo alcuni modi espressivi come la tecnica dell’analogia e dell’elencazione e l’assenza di punteggiatura, cui aggiunse la simultaneità (la compresenza di spazi e tempi) e il plurilinguismo, mai cadendo però nella verbosità comune a molti futuristi. Nel Giornale di bordo Soffici indicava così il suo metodo:
“Posar le parole come il pittore i colori e vedere il mondo spiegarsi nel suo splendore!”.
Lo stesso Mengaldo a proposito della tecnica della simultaneità osserva che “questa omologazione dei tempi è press’a poco l’opposto dello sfratto futurista del passato”.
Condivisibile, in definitiva, è il giudizio di Luciano De Maria che definisce l’uomo del Poggio “classico della modernità”. Per concludere riportiamo, a mo’ di esemplificazione di quanto fin qui esposto, alcuni brani di una delle poesie più note di Ardengo Soffici, “Arcobaleno”:
Inzuppa 7 pennelli nel tuo cuore di 36 anni finiti ieri 7 aprile
E rallumina il viso disfatto delle antiche stagioni
Tu hai cavalcato la vita come le sirene nichelate dei caroselli da fiera
In giro,
Da una città all’altra di filosofia in delirio
D’amore in passione di regalità in miseria
Non c’è chiesa cinematografo redazione o taverna che tu
non conosca
Tu hai dormito nel letto d’ogni famiglia
Ci sarebbe da fare un carnevale
Di tutti i dolori
Dimenticati con l’ombrello nei caffè d’Europa
Partiti tra il fumo coi fazzoletti negli sleeping-cars diretti al
nord al sud
Paesi ore
Ci sono delle voci che accompagnan pertuttto come la luna e
i cani
Ma anche il fischio di una ciminiera
Che rimescola i colori del mattino
E dei sogni
(…)
Il negozio di Chaussures Raoul fa sempre concorrenza alle
stelle
E mi accarezzo le mani tutte intrise dei liquori del tramonto
Come quando pensavo al suicidio vicino alla casa di
Rigoletto
Si caro
L’uomo più fortunato è colui che sa vivere nella contingenza
al pari dei fiori(…)
Tu ti ricordi insieme ad un bacio seminato nel buio
Una vetrina di libraio tedesco Avenue de l’Opera
E la capra che brucava le ginestre
Sulle ruine della scala del palazzo di Dario a Persepoli
Basta guardarsi intorno
E scriver come si sogna
Per rianimare il volto della nostra gioia
(…)Anima girasole il fenomeno converge in questo centro di danza
Ma il canto più bello è ancora quello dei sensi nudi
Silenzio musica meridiana
Qui e nel mondo poesia circolare
L’oggi si sposa col sempre
Nel diadema dell’iride che s’alza
Siedo alla mia tavola e fumo e guardo
Ecco una foglia giovane che trilla nel verziere difaccia
I bianchi colombi volteggiano per l’aria come lettere
d’amore buttate dalla finestra
Conosco il simbolo la cifra il legame
Elettrico
La simpatia delle cose lontane
Ma ci vorrebbero della frutta delle luci e delle moltitudini
Per tendere il festone miracolo di questa pasqua
il giorno si sprofonda nella conca scarlatta dell’estate
E non ci son più parole
Per il ponte di fuoco e di gemme
Giovinezza tu passerai come tutto finisce al teatro
Tant pis Mi farò allora un vestito favoloso di vecchie affiches.