da Kobarid (Caporetto)
– Di’, italiano, cosa c’è di bello a Caporetto.
– Merda.
Mario Silvestri, Isonzo 1917
In sloveno si chiama Kobarid, in tedesco si chiamava Karfreit. Per gli italiani resta Caporetto, un simbolo più che un nome, un non luogo che raccoglie e condensa tutti i luoghi, anche i luoghi comuni.
Il caporettismo come infezione morale, l’Italia caporetta come un fiume carsico che periodicamente riaffiora, si gonfia e rompe gli argini. «Un villaggio bianco con un campanile in una valle. Era un villaggio pulito e c’era una bella fontana nella piazza» è la descrizione che ne diede Ernest Hemingway in Addio alle armi e da allora non è che sia cambiato molto, una volta messe da parte le miserie architettoniche della modernità: una pizzeria che sembra la sala d’aspetto di una stazione, un albergo che assomiglia a un refettorio. La piazza è sempre lì, così come la chiesa, anche se il campanile ha ora una punta a bulbo, c’è in più una statua in bronzo, brutta, che potrebbe rappresentare un prete, un papa, un monito di pace. Se le dai le spalle e sali sulla sinistra, in pochi minuti arrivi sul colle di Sant’Antonio lungo una strada scandita dalle dodici stazioni della Via Crucis. Conduce all’omonimo Sacrario costruito intorno alla chiesetta che dà il nome al colle: è a forma di ottagono con tre cerchie concentriche digradanti verso la sommità. Su lastre di serpentino color verde sono incisi i nomi dei caduti, dietro grandi lastroni sono raccolti i resti di quelli ignoti. In totale sono 7014, prelevati dai locali cimiteri militari della Grande guerra, poco più di una goccia in un oceano di morti: più di seicentomila.
Il solo rumore che turba la pace di quei poveri resti è quello dell’aspiratore con cui un operaio libera stancamente i tre ottagoni dal manto di foglie che vi si ammassano. Un furgone delle poste slovene, con la silhouette di una tromba e di una scarpa da ginnastica come insegna, è parcheggiato in totale solitudine alla base del sacrario. Sono l’unico visitatore.
Dalla sommità vedi allungarsi il cosiddetto «itinerario storico di Caporetto», cinque chilometri lungo le tre linee di difesa italiane, trincee, camminamenti, fortini, caverne, rifugi, posti d’osservazione e nidi di mitragliatrici di cui oggi sopravvivono sparsi frammenti riportati alla luce e trasformati in musei all’aperto. Il resto, tutto il resto, se l’è ripreso la terra, la natura, ricoprendo, demolendo, invadendo. In una giornata di pallida nebbia e di sole giallo, a fare da contrasto con lo scuro massiccio montuoso che ti circonda è la lama verde ghiaccio dell’Isonzo che ti scorre sotto gli occhi scendendo fra i tonfani disseminati nel suo letto. La fine del suo corso superiore è quel ponte settecentesco che vedi sulla destra, su cui passarono le truppe di Napoleone e da cui allora prese il nome. Nel 1915, il giorno dopo la dichiarazione di guerra, gli austriaci in ritirata lo fecero saltare in aria. Gli italiani lo rifecero prima in legno, poi in ferro e una foto del 1916 ne mostra ancora i superstiti pilastri di pietra sulla sponda di sinistra. Risalendo l’Isonzo verso Trnovo c’è invece, rimessa ad hoc per l’itinerario, la passerella di 52 metri che costruimmo per collegare le due rive e su cui correva la terza linea difensiva. L’Isonzo adesso è l’infernale paradiso dei canoisti.
Caporetto è a valle della catena montuosa del Colovrat, all’incrocio tra l’Isonzo e la pianura friulana. Nel 1917 era l’importante collegamento tra l’esercito italiano, il IV corpo d’Armata lì trincerato e l’interno del Paese. Saga, Picco, Dresenza, per fare solo tre nomi erano fra i comandi divisionali dei paesi limitrofi e per tutto l’apparato accessorio annidato in regione, genio, sanità, sussistenza, riserva. Ecco perché sfondare lì era così importante per tedeschi e austro-ungarici, fu così disastroso per noi.
Da qui si va a visitare le cascate di Kozjak, a nuotare o in kayak nel fiume Nadiza, che altro non è che il nostro Natisone, ci si arrampica sul Kolovrat, si fa parapendio. Il Circolo gastronomico di Kobarid annovera un paio di ristoranti di buon livello, la carenza alberghiera è supplita da una robusta rete di camere private. Dalla piazza principale al Museo di Caporetto ci sono poche centinaia di metri. È una casa bianca a due piani che durante la guerra gli italiani adibirono a comando con annesso tribunale militare. C’è la sala con il plastico del massiccio del Monte Nero, quella con il plastico dell’Alta Valle dell’Isonzo, la sala dello sfondamento, quella delle retrovie, la sala bianca dedicata ai due inverni più rigidi della guerra, il 1916 e il 1917, il freddo, la neve, le valanghe, quando oltre a combattersi fra loro i soldati avevano la natura per nemica. In totale ci sono una cinquantina di carte militari, schizzi e documenti dei comandi, 500 fotografie e un migliaio fra armi, attrezzi, uniformi, medaglie e oggetti-ricordo. Dal Museo al Ponte napoleonico, a piedi c’è un quarto d’ora e tutta Caporetto sta in un chilometro quadrato o poco più.
Il caporettismo
Eppure, ancora un secolo dopo quel nome continua a risuonare, sinonimo di crisi morale, di inaffidabilità, se non di codardia. E a nulla vale ricordare che nella Grande guerra, dalla battaglia di Gorlice-Tarnow del 1915, alla offensiva del generale Nivelle del 1917, alla Somme e allo Chemin des Dames del 1918, gli alleati francesi, inglesi e russi subirono disastri militari più terribili della ritirata di Caporetto sia per perdite di territorio, che di uomini e mezzi. Non serve, di Caporetto ce n’è una sola, ed è la nostra.
Cominciò tutto con Cadorna e il suo infame bollettino di guerra in cui parlava «di reparti della 2° Armata vilmente ritiratasi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico», un’interpretazione che aveva per corollario il tradimento e/o la ribellione, lo «sciopero militare» coniato dai socialisti o la cosiddetta «rivolta dei santi maledetti» coniata da Malaparte. Invece di un’analisi militare si preferì la retorica politico-sociale, grazie alla quale non si riusciva però a capire perché quello stesso esercito si fosse battuto bene prima, si sarebbe battuto altrettanto bene due mesi dopo. Restò fuori la nuova strategia elastica dell’attacco austro-tedesco, la superbia autoritaria e la pigrizia intellettuale delle alte gerarchie militari italiane, il mancato addestramento a combattere una guerra difensiva dopo 29 mesi di reiterate e sanguinose offensive. In compenso fioccarono i memoriali e i contro-memoriali, le commissioni d’inchiesta pilotate, i silenzi colpevoli, l’accettazione di un facile, perché indistinto, capro espiatorio, il soldato italiano, quello stesso però che avrebbe poi vinto la guerra… In un bel libro uscito un paio d’anni fa, La verità su Caporetto , lo storico Paolo Gaspari ha ricostruito per la prima volta tutte le fasi della battaglia, illustrandole con schizzi, foto e planimetrie a colori. «Snobbando l’ histoire bataille di Caporetto – spiega – la storiografia italiana ha causato la mancata trasmissione della realtà dei fatti accaduta quel 24 ottobre 1917, e il radicamento di una verbosa valutazione politica, con effetti nefasti sulla coscienza di sé di un popolo e, quello che più conta, sulla sua fierezza».
«È stato bene?» mi chiede l’affittacamere il giorno della mia partenza. «Benissimo e il Museo è molto bello». «Sì, e ha comprato il nostro Tolminc?» «Cos’è?» «La specialità più famosa di Kobarid». «La vendono al Museo di Caporetto?» «Ah, scusi, pensavo parlasse del Museo del formaggio». da Il Giornale)
Libri sul tema
La verità su Caporetto di Paolo Gaspari (Gaspari, 2012)
Giornale di guerra e prigionia. Con il Diario di Caporetto di Carlo Emilio Gadda (Garzanti, 2002)
La rivolta dei santi maledetti di Curzio Malaparte (Vallecchi, 1995)
Caporetto. Una battaglia e un enigma di Mario Silvestri (Bur, 2014)
Prima di Caporetto. La decima e l’undicesima battaglia dell’Isonzo di Gianni Baj-Macario e Anton von Pitreich (Leg, 2007)